Divenuto celebre per aver interpretato in passato il ruolo di un mitico supereroe, l’attore Riggan Thomson (Michael Keaton) è ora alle prese con le difficoltà di mettere in scena una commedia a Broadway, nella speranza di rinvigorire così la sua carriera in declino. Nei giorni che precedono la serata della prima, l’uomo dovrà fare i conti con il suo io e tentare di recuperare la famiglia, la carriera e se stesso.
Lasciatosi ormai alle spalle il fortunato sodalizio con Guillermo Arriaga (che per lui scrisse Amores Perros, 21 Grammi e Babel), dopo il successo del duro e disperato Biutiful il regista Alejandro González Iñárritu ne ricompone la squadra di sceneggiatori (Nicolas Giacobone e Armando Bo, ai quali si aggiunge Alexander Dinelaris), insieme ai quali firma l’eccellente script di un film premiatissimo che rappresenta per lui un importante cambio di registro: come nell’ultimo succitato lavoro, anche qui adotta una struttura lineare (a differenza dei primi tre, contraddistinti invece dall’intrecciato schema ad incastro), mentre delle opere precedenti mantiene la tensione emotiva legata ad un senso ineluttabile di morte; in questo caso, però, tale dipartita non è più fisica, bensì artistica, e insieme a ciò varia anche il tono del racconto e della messa in scena, sfociando nel terreno della dark comedy, inedito per il regista; resta anche il gusto del racconto corale, seppur in modo diverso: questa volta infatti Iñárritu, pur legando le vicende di tutti i personaggi (strizzando peraltro palesemente l’occhio al cinema di Altman), si concentra principalmente su un unico, vero protagonista, ovvero l’attore Riggan Thomson, interpretato da un ritrovato e straordinario Michael Keaton, giustamente candidato all’Oscar e vincitore di un Golden Globe. All’inizio, Riggan ci viene presentato di spalle, nel silenzio del suo camerino: è di fronte alla finestra, e indossa nient’altro che la biancheria intima; fermo in posizione yoga, le gambe incrociate, è sospeso a mezz’aria: sta levitando. Sembra sereno, ma nella sua mente una voce profonda e misteriosa lo assilla con grottesche e provocatorie affermazioni, rivolgendosi a lui con un tono tra il severo e il canzonatorio, senza dargli tregua. Quando in seguito, a causa di una svista beffarda, lo ritroveremo di nuovo in mutande (senza averlo nel frattempo mai perduto di vista per un istante), Riggan sta invece attraversando di corsa una Times Square notturna e affollata, cercando di rientrare al più presto nel teatro facendosi strada tra una folla eterogenea che, riconoscendolo, gli si stringe intorno con stupore o entusiasmo. Eppure questa volta, nonostante la confusione generale, sospeso tra la febbricitante attenzione generale e un palcoscenico che lo attende, la sua mente sembra invece libera da tormenti, inaspettatamente lucida e attiva, come in una circostanza a lui familiare o in un certo qual modo congeniale, se non addirittura propositiva. Così originale ed emblematica, questa bizzarra antitesi può costituire una delle più esplicite e centrate manifestazioni della straordinaria pregnanza tematica (di grande efficacia espositiva) e, insieme, della stratificata e polifonica complessità nella scrittura stilistica alla base del quinto film del già apprezzatissimo regista messicano: intimo e spettacolare, sottile eppure altisonante, profondamente lucido e al contempo quasi surreale, tecnicamente virtuoso e ricco di emozioni contrastanti, Birdman è una (tragi)commedia nera che, fondendo vibrante dramma umano, umorismo sferzante e satira caustica sull’ambiente dello spettacolo, vive di contrasti e di conflitti, di effetti e cortocircuiti. Tutto ciò è evidente fin dal suo spettacolare virtuosismo tecnico: l’intero film è infatti composto da diversi piani-sequenza di diversa lunghezza, innestati con tagli nascosti o abilmente corretti in digitale, in modo che sembri costituito da (quasi) una sola, acrobatica inquadratura; grazie al preziosissimo apporto del grande direttore della fotografia Emmanuel Lubezki, l’autore può così concedersi lunghe scene in tempo reale, qualche uscita in esterni e perfino alcune ellissi temporali, il tutto apparentemente senza stacchi di montaggio, in realtà mascherati attraverso dissolvenze incrociate, giochi di ombre, sovrapposizioni; di grande incisività, tale ritmo fluido ma sincopato è coerentemente scandito da una colonna sonora composta in gran parte da un pressoché ininterrotto assolo di soft jazz, con le percussioni del musicista Antonio Sanchez che addirittura “entrano” letteralmente in scena. Pur destando il sospetto di un certo autocompiacimento, tale virtuosismo stilistico non è invece affatto fine a sé stesso: senza mai fermarsi, la macchina da presa si intrufola dietro le quinte e tra i corridoi del teatro, trascinando lo spettatore nei meandri di una gabbia labirintica e claustrofobica attraverso una sorta di soggettiva di un osservatore onnisciente che può arrivare a coincidere con il flusso di coscienza del protagonista; riuscendo così a trasportare lo spettatore nella mente di Riggan, tale ipnotico espediente alimenta inoltre la sospensione tra realtà e finzione: così ben palesata nelle dinamiche interne tra personaggi che sono attori e viceversa (vedere il Mike Shiner del grande Edward Norton, costantemente in cerca di un realismo assoluto sul palco, eppure non in grado di essere sincero ed autentico nella vita), tale dicotomia si rispecchia peraltro negli ammiccanti rimandi meta-cinematografici (Keaton interpretò Batman nei due film diretti da Tim Burton, dopodiché la sua carriera non brillò per successi o riconoscimenti), come anche nelle scatenate incursioni nel surreale (la sequenza del protagonista “in volo” tra mostri ed esplosioni). Anche a questo proposito, il film gioca sul parallelo tra i due piani narrativi, ovvero la verità e l’apparenza (non a caso si parla di teatro nel teatro), con la seconda come viatico per un eventuale riscatto nei confronti del dilagante scetticismo nel contesto contemporaneo: perennemente filtrato attraverso il perverso meccanismo degli strumenti di comunicazione virale (dalle visualizzazioni sui social network fino alle notizie da gossip selvaggio), il concetto di una popolarità sempre più relativa si connette al discorso sulla legittimazione culturale, con il rapporto tra arte (autentica perché come tale riconosciuta) e intrattenimento popolare (cosiddetto “basso”) ad innescare una riflessione caustica sul prestigio o sulla vacuità di chi tenta disperatamente di essere qualcuno; non a caso, la commedia che Riggan allestisce è basata su “Di cosa parliamo quando parliamo d’amore” di Raymond Carver, romanzo sulla ricerca d’amore e accettazione: con un matrimonio fallito alle spalle, un’amante pretenziosa e una figlia ex tossicomane (una Emma Stone mai così brava) che lo vede come una nullità, la sua vita privata è allo sbando, mentre il suo lavoro viene demolito dai media e non solo (da notare le stoccate satiriche nei confronti dei critici e della stampa); anche il collega Mike non esita ad accusarlo di perpetrare quel “genocidio culturale” a danno delle nuove generazioni, continuando peraltro a punzecchiandolo con brutale e sfacciata sincerità (“la popolarità è la cuginetta del prestigio”). Credendo che proprio quel prestigio potrebbe riscattarlo su entrambi i fronti, Riggan accantona quindi il blockbuster per dedicarsi al teatro, riconosciuto invece come forma di espressione artistica “più alta”. Ma il vero conflitto è radicato nel mezzo, ed è ovviamente innanzitutto interiore: se l’uomo è ormai dimenticato, quel personaggio che lo rese celebre continua invece a vivere, come un rimpianto ma al tempo stesso anche come una possibilità. Diviso quindi tra la facilmente appagante esaltazione dell’ego e una difficile ma più nobile ambizione, Riggan finirà per confondere sempre più il reale con l’immaginario, fino alla catartica sovrapposizione tra il suo vero essere e il suo “rapace” alter-ego in maschera: un incontro-scontro che porterà ad una conclusione metaforica ed emblematica, come in un cortocircuito tra la morte di un artista e l’immortalità di un eroe. A questo proposito, se tra le altre cose anche i molteplici finali, peraltro in contrasto con qualche situazione invece irrisolta, potrebbero denotare una certa sovrabbondanza di elementi, l’affascinante svolgimento e l’incredibile messa in scena, combinata con la bravura degli interpreti e la brillantezza dei dialoghi, fanno dimenticare tali limiti (peraltro trascurabili in un contesto così glorioso), permettendo comunque a Birdman di spiccare il volo: un volo di eroismo donchisciottesco, dagli sviluppi insperati e sorprendenti, cui fanno capo la ricerca di identità e la scoperta di una nuova consapevolezza, prima anticipati in sordina in un promemoria su uno specchio (“Una cosa è una cosa, non quello che si dice di quella cosa”) e in seguito magistralmente manifestati nell’esplicitazione di un sottotitolo meraviglioso (“L’imprevedibile virtù dell’ignoranza”). In concorso alla 71a edizione della mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia (dove fu presentato come film d’apertura), nonostante gli unanimi consensi non ottenne incredibilmente alcun riconoscimento; tuttavia, ebbe comunque occasione di rifarsi in seguito, imponendosi nel circuito dei premi fino a trionfare agli Oscar 2015, dove su 9 candidature (di cui 3 nelle categorie della recitazione per Keaton, Norton e Stone) conquistò infatti ben 4 premi importanti: miglior film, regia, sceneggiatura originale e fotografia. Senza dubbio uno dei migliori titoli dell’anno.
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Summary
“Birdman or (The Unexpected Virtue of Ignorance)”; di Alejandro G. Iñárritu; con Michael Keaton, Edward Norton, Emma Stone, Naomi Watts, Andrea Riseborough, Amy Ryan, Zach Galifianakis; commedia; USA, 2014; durata: 119’. |
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