Michèle (Isabelle Huppert) è una di quelle donne che niente sembra poter turbare. A capo di una grande società di videogiochi, gestisce gli affari come le sue relazioni sentimentali: con il pugno di ferro. Ma la sua vita cambia improvvisamente quando viene aggredita e violentata nella sua abitazione da un misterioso sconosciuto. Imperturbabile, Michèle cerca di rintracciarlo. Una volta trovato, tra i due si stabilisce uno strano gioco che potrebbe ad entrambi sfuggire di mano da un momento all’altro.
A dieci anni dall’ultimo Black Book, l’itinerante ed impetuoso olandese Paul Verhoeven resta in Europa e colpisce ancora con un altro film decisamente audace per contenuti e modi espressivi, presentato con successo all’ultimo festival di Cannes. Tratto dal romanzo “Oh…” del noto anticonformista parigino Philippe Dijan, mirabilmente adattato per lo schermo dall’americano David Birke (il cui lavoro è stato in seguito tradotto in francese dallo specialista inglese Harold Manning), questo sedicesimo film dell’ottantasettenne regista (il suo primo in lingua e di produzione francese, patrocinato dal lungimirante produttore Saïd Ben Saïd) si rivela appunto da subito un’opera di difficile classificazione: infatti, nella sua struttura da atipico rape-revenge sui generis, alla suspense da thriller si intreccia una componente da raffreddato dramma esistenziale, il tutto tessendo progressivamente un groviglio di pulsioni e morbosità attraversato però finanche da una tagliente vena ironica da grottesca commedia di costume. Muovendosi così tra Chabrol e Haneke con un occhio al comune denominatore Hitchcock ma anche al sardonico Buñuel, Verhoeven dimostra quindi grande mestiere nell’orchestrare con sapienza un materiale così eterogeneo, confermandosi peraltro ancora una volta capace (sebbene con risultati in precedenza discontinui) di non essere mai banale pur restando al tempo stesso fedele a se stesso: una tendenza evidente fin dai primi successi in patria (tra cui spiccano Fiore di Carne, Soldato d’Orange e Il Quarto Uomo) ed in seguito confermata anche durante la trasferta hollywoodiana durante la quale poté spaziare dalla suggestiva fantascienza di Robocop e Atto di Forza all’inconcludente flop Showgirls, passando ovviamente per il bollente cult Basic Instinct; non a caso, a 24 anni di distanza da quest’ultimo film, il regista torna quindi a mettere in scena ossessioni scabrose rimanendo inoltre coerente con il suo impetuoso pessimismo di fondo e con la personale concezione del corpo come mutevole strumento polifunzionale; un corpo, quello della protagonista Michèle, costantemente scosso e messo alla prova eppure non ostentato come quello dell’iconica Sharon Stone nel succitato cult del 1992; infatti, questa volta a sconvolgere non è un’insistita (e quindi magari discutibile) ricerca dello scandalo e dell’eccesso, bensì proprio una voluta e tutt’altro che arbitraria elusione dello stesso in funzione di una radicata ambiguità che risulta ben più efficace ed inquietante anche perché alimentata da un sistematico rifiuto di argomentare e/o giudicare la rete di perversioni che (percorrendo coraggiosamente un crinale rischioso) fa da motore alla narrazione: perché la donna si presta ad un gioco pericoloso con il suo aggressore (risvolto che potrebbe far presagire conseguenze drammatiche o magari un’eventuale vendetta)? Senza perdersi in velleitarie o pretestuose elucubrazioni, Verhoeven non offre risposte esplicite o sicure, limitandosi piuttosto ad illustrare come Michèle decida di trasformare un sopruso traumatizzante in una sorta di rituale catartico che paradossalmente le appare come l’unica possibilità di sentirsi placata: un atto di masochismo in cui la protagonista si getta non banalmente per soddisfare desideri repressi o reprimere emozioni, ma piuttosto per annullarsi in un patto con un’altra anima inquieta che, come lei, seppur in maniera diversa, pare dover indossare una maschera (nel suo caso in senso letterale e figurato) per trovare anche solo una momentanea libertà dalle convenzioni di una società ipocrita e soffocante. Infatti, per entrambi tale godimento illusorio è sintomo e deriva di un’esistenza di facciata a sua volta effimera ed ugualmente priva di consistenza, quasi una farsa con cui peraltro ben si sposa il succitato umorismo beffardo rintracciabile specialmente nel sarcastico spaccato di un’élite borghese in cui tutti recitano, appunto, un ruolo parallelo: dalla madre “grottesca” (che amoreggia con un improbabile giovanotto) al figlio senza ambizioni (convinto di riempire tale vacuità sposando la fidanzata incinta di un altro uomo), dalla vicina bigotta (ma dispiaciuta di non riuscire a soddisfare il mediocre compagno) ai colleghi di lavoro (ostili o asserviti), dal comprensivo ex marito (a cui fa ancora scenate di gelosia) all’amante che è anche il marito della migliore amica, fino a quest’ultima (per la quale Michèle prova al tempo stesso affetto, inadeguatezza e senso di colpa). In questo cumulo di tensioni ed inquietudini che porta a sfogare le frustrazioni nel privato, la brutale violenza resta quindi inconfessata forse anche proprio perché riaccende nella protagonista quella condizione di succube che l’accompagna fin dalla giovane età, quando il padre commise una strage per la quale fu condannato all’ergastolo (altra condotta inspiegabile che fa da spia alle estreme conseguenze delle suddette nevrosi inesprimibili), facendo ricadere l’infamia e la vergogna proprio sulla figlioletta. Ecco quindi che, quando tale stato di vittima perenne riaffiora, la protagonista pare quindi cogliere l’occasione per fare i conti con la propria vita e le proprie inquietudini per tentare di uscire dalla spirale di violenza in cui è da sempre imprigionata, anche a costo di assecondarne altra, spingersi oltre i propri limiti o ricorrere alla vendetta: anche per questo, piuttosto infondate sarebbero inoltre le preventive o eventuali accuse di misoginia, perché in realtà (come dichiarato fin dal titolo) il trascinante racconto di Verhoeven segue il percorso di una donna che con coraggio e pervicacia cerca con ogni mezzo di trovare la libertà (da se stessa e da coloro che la circondano) in modo da poter così infine affermare finalmente la propria identità. In tutto ciò, Verhoeven trova un’anti-eroina ideale in una grande Isabelle Huppert di sfaccettata e seducente ambiguità, la quale (candidata all’Oscar e premiata ai Golden Globe per questa sua nuova, strepitosa interpretazione) riesce sempre a colpire e travolgere anche solo con poche espressioni appena accennate, confermandosi puntualmente e senza dubbio una delle maggiori interpreti del cinema europeo.
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Summary
id.; di Paul Verhoeven; con Isabelle Huppert, Laurent Lafitte, Anne Consigny, Charles Berling, Virginie Efira, Christian Berkel, Judith Magre, Jonas Bloquet, Alice Isaaz, Vimala Pons, Lucas Prisor; Francia/ Belgio/ Germania, 2016; durata: 130'. |
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