Innamoratosi di una bella fioraia cieca (Virginia Cherrill), che per un equivoco lo crede un milionario, il vagabondo Charlot (Charles Chaplin) decide di trovare i mezzi per aiutarla finanziariamente in modo che possa sottoporsi alle cure che potrebbero farle recuperare la vista. Per riuscirci, incapperà in una serie di imprevedibili vicissitudini.
Dopo il notevole Il Circo (1928), oltre a una serie di problemi personali e professionali Chaplin deve affrontare un’ulteriore difficoltà, ovvero l’avvento del sonoro che a suo papere avrebbe mortificato e svilito la sublime e antica arte della pantomima che lo rese celebre. Così, deciso a non sacrificare la sua poetica, per il suo film successivo l’attore e regista rispose al rivoluzionario evento con un’operazione in linea con il proprio estro espressivo (ripetuta anche per il successivo e altrettanto celebrato Tempi Moderni), realizzando un film muto con accompagnamento musicale, da lui stesso ideato e trascritto dall’abile compositore Arthur Johnson (che ebbe vi inserì il motivo “La Violetera” dello spagnolo José Padilla). Il risultato, frutto di una produzione assai travagliata, protrattasi per ben due anni densi di tribolazioni (ambienti totalmente ricostruiti in studio, interpreti sostituiti in corsa, riprese più volte interrotte, infinito materiale girato e una grande quantità di sequenze scartate) fu un meritato trionfo: critica e pubblico accolsero con uguale entusiasmo quello che da subito si impose come un autentico capolavoro divertente e commovente che inoltre, realizzato negli anni della più grave crisi economica del capitalismo, non manca di arguti e quasi audaci spunti satirici nel suo ritratto di una metropoli animata da scontri tra poveri e conflitti di classe: infatti, in tale contesto dominato dal vile denaro, gli individui sembrano riuscire a provare sentimenti autentici solo quando la loro percezione della realtà risulta alterata, ribaltamento che, simboleggiato dalla cecità della fioraia ma anche dall’ubriachezza del miliardario (figura a cui si ispirò Brecht per “Il Signor Puntila e il suo Servo Matti”), veicola appunto una sentita critica ad un problematico sistema socio-economico nel quale lo sventurato protagonista, ribellandosi alla desolante realtà, svetta come un piccolo-grande antieroe quasi anarchico. In tutto ciò, combinando con grande maestria genuino romanticismo e spunti umoristici sempre irresistibili, privi di dialoghi ma arricchiti appunto da un creativo ricorso al sonoro (impiegato per ottenere l’effetto straniante funzionale allo sberleffo, come accade nella celebre sequenza del fischietto inghiottito dal protagonista), Chaplin torna a trattare i temi dell’alienazione e della solitudine intrecciandoli a quello dell’illusione; esemplare in questo senso la splendida scena conclusiva, con quel sorriso di aspettativa che congelandosi in sguardo di disillusione contiene in realtà tutta la malinconica bellezza dell’esistenza: un finale di struggente poesia tra i più belli della storia del cinema, saggio di recitazione e di messa in scena entrato non a caso nell’immaginario e ancora oggi capace di emozionare ed incantare ad ogni visione.
Luci della Città | |
Luci della Città | |
Summary
“City Lights”; di CHARLES CHAPLIN; con CHARLES CHAPLIN, VIRGINIA CHERRIL, HARRY MYERS, FLORENCE LEE, AL ERNEST GARCIA, HANK MANN; commedia; USA, 1931; B/N; durata: 86’; |
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