Un ignoto e inafferrabile maniaco (Peter Lorre) semina il panico in città adescando bambine innocenti che uccide e sevizia. Mentre le autorità, che brancolano nel buio, organizzano retate nei quartieri della malavita, per allentare tali pressioni da parte della polizia le organizzazioni criminali decidono a loro volta di partecipare alla forsennata ricerca all’assassino, coinvolgendo anche vagabondi e mendicanti in una fitta caccia all’uomo dagli sviluppi imprevedibili.
Sceneggiato dal regista con la scrittrice Thea von Harbou (sua seconda moglie, in più occasioni già sua collaboratrice) e ispirato ad un fatto di cronaca, ovvero i delitti commessi nella Germania degli anni ’20 da Fritz Haarmann e Peter Kurten (quest’ultimo denominato “vampiro di Düsseldorf”, appellativo a cui fa riferimento il titolo italiano nonostante l’ambientazione berlinese), è uno dei film più giustamente noti e celebrati di Fritz Lang, il quale, al suo primo film parlato, vi combina una costruzione da cinema muto e un’inventiva sperimentazione delle nuove tecniche sonore. Perché, pur optando per un taglio prevalentemente realista, nel continuare a mettere a frutto la sua esperienza nel registro espressionista il regista ricorre ad immagini di grande densità evocativa, alle quali però sovrappone appunto questa volta un efficace utilizzo del suono, evidente fin dai primi minuti della pellicola, con l’entrata in scena dell’assassino annunciata dal tema musicale da lui costantemente fischiettato (ovvero il IV movimento della suite “Peer Gynt” op. 46 di Edvard Grieg), lo stesso che fatalmente lo condannerà anche ad essere scoperto. Così, tra formidabili trovate visive (coadiuvate dalla splendida fotografia a forti contrasti di Fritz Arno Wagner, con le ombre che diventano geniali espedienti narrativi) e sapienti soluzioni di montaggio (l’alternanza tra i piani dei poliziotti e quelli dei criminali), Lang crea sequenze di grande impatto e garantisce un’alta tenuta della suspense, coniugando avvincente thriller poliziesco e pregnante dramma socio-antropologico; perché, nel delineare uno dei primi nonché più celebri e memorabili ritratti di serial-killer della storia del cinema, l’autore porta avanti la sua riflessione sul labile confine tra bene e male intrecciando al tema della colpa collettiva il discorso a lui caro della dicotomia tra giustizia privata e quella pubblica: infatti, se per la rabbiosa folla (da subito pronta al linciaggio) la prima si può anteporre alla seconda (dimostrando così appunto che in ogni individuo possono celarsi pulsioni oscure e disturbanti), emblematico a questo proposito è anche il passaggio dedicato al tribunale dei criminali (ripreso da “L’Opera da Tre Soldi” di Bertolt Brecht), con la disperata confessione del carnefice che quindi diventa a sua volta anche vittima (di se stesso come anche del sistema); ad incarnarlo con potente suggestione (vedere ad esempio il succitato monologo finale) è l’ungherese Peter Lorre, il quale, al suo primo ruolo importante (che rimase anche il più celebre, segnando indelebilmente la sua carriera), riesce mirabilmente a far emergere l’orrore perverso che può celarsi dietro un volto in apparenza anonimo (e quindi, come tale, ancora più inquietante). Divenuto uno dei prototipi del genere noir e un autentico classico, fu rifatto ad Hollywood nel 1951 con la regia di Joseph Losey, mentre negli anni Duemila venne invece adattato prima come dramma radiofonico e in seguito anche come graphic novel.
M - Il Mostro di Düsseldorf | |
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Summary
“M”; di FRITZ LANG; con PETER LORRE, GUSTAF GRUNDGENS, RUDOLF BLUMMER, ELLEN WIDMAN, INGE LANDGUT, OTTO WERNICKE, THEODOR LOOS, FRIEDRICH GNAB, FRITZ ODEMAR, PAUL KEMP, THEO LINGEN; drammatico; Germania, 1931; durata: 92’; |
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