In un paese della sconfinata e remota campagna russa, un uomo (Alexei Ananishnov) si prende cura dell’amata madre (Gudrun Geyer), molto malata e ormai vicina alla morte, affrontando nel frattempo dilemmi e conflitti interiori che pare non riuscire a placare.
È il nono lungometraggio del grande autore russo Aleksandr Sokurov, il quale, dopo un ventennio di esperienza e travagliata ricerca espressiva (tra lavori censurati in patria e mai distribuiti all’estero, sentiti documentari sul cinema, curiose trasposizioni letterarie, personalissimi cortometraggi e film di monumentale durata e ambizione), riuscì finalmente ad imporsi a livello internazionale con un’opera che attraversò come una sorprendente meteora il panorama cinematografico europeo. Perché l’intimo e straziante viaggio in un limbo surreale di quella che iconograficamente può far pensare ad una sorta di “Pietà” dai ruoli invertiti (vedere la ricorrente immagini del figlio nell’atto di sorreggere la madre) è reso come una vera e propria esperienza visiva tramite un’impostazione e un linguaggio che, inusuali per le tendenze filmiche contemporanee, richiamano quelli di un’evocativa pittura umanista: infatti, coerente con la sua concezione di cinema come arte derivativa e multiforme, Sokurov adotta un geniale approccio che pare riflettere l’atto di dipingere e realizza un vero e proprio “quadro in movimento”, componendo le inquadrature con un virtuosistico ricorso a filtri, penombre, giochi di specchi o varietà di lenti e calando il tutto in un’aura di sospensione temporale coadiuvata (in controtendenza con i frenetici ritmi odierni) da movimenti di macchina sapientemente quasi impercettibili. In tutto ciò, dichiaratamente ispirato al lavoro dell’artista tedesco Caspar David Friedrich e in particolare al suo “Monaco in Riva al Mare” (ma probabili sono anche le influenze di Turner), l’autore ne trasfigura così su schermo il romantico naturalismo, rendendo l’ambiente (che ogni cosa incorpora e lenisce) una componente cruciale di quello che, integrato da un tappeto di suoni e rumori che esalta tali atmosfere, si eleva quindi ad avvolgente affresco audiovisivo. Così, con il lirismo contemplativo di una sublime elegia dai toni quasi onirici (tanto da sconfinare in un austero misticismo), questo autentico film d’arte in cui Sokurov assimila ed elabora la lezione dell’amico e connazionale Tarkovskij trasporta lo spettatore in un’ecosistema di lente dolcezze e lunghe angosce, di memorie e di sogni, di piccoli gesti e grandi silenzi (i dialoghi ridotti al minimo), di scorci terrestri di sconfinata bellezza ma anche di divoranti dubbi esistenziali; infatti, connesse alla centrale esplorazione delle dinamiche tra genitori e figli, le importanti riflessioni sull’elaborazione della perdita (l’amore che si riversa nel dolore e viceversa) e sul rapporto tra fede e sacralità (sottolineato anche dalla promessa finale), s’intrecciano ai temi della fugacità di un tempo quasi annullato in quanto ciclico (di cui gli spazi sconfinati sono emblema insieme al ribaltamento di ruoli tra i due protagonisti) e dell’incapacità di rapportarsi con l’ineluttabilità della morte (e quindi con l’essenza della vita): non a caso, nel suo percorso ai confini del mondo il protagonista appare costantemente diviso tra disperazione e rassegnazione, tra tentazioni di fuga (l’improvviso fischio di un treno in lontananza a richiamare la distante realtà che interromperebbe quell’esilio volontario di ricerca interiore) e segnali di una pur effimera possibilità (la farfalla incastrata tra le dita), fino ad un ritorno verso un’attesa definitiva ma forse allo stesso tempo liberatoria nella sua inevitabile mancanza di risposte. In tutto ciò, concepito come prima parte di un’ideale trilogia che, proseguita nel 2003 con “Padre e Figlio”, il regista intende chiudere con un capitolo conclusivo sull’amore fraterno ancora da realizzare, questo film pregnante ed intenso, splendido e straziante, geniale e affascinante in tale inscindibile compenetrazione tra forma e contenuto, resta un anomalo e straordinario piccolo-grande capolavoro a cavallo dei due secoli, nonché una tappa chiave di colui che continua a confermarsi uno dei più interessanti autori europei contemporanei.
Madre e Figlio | |
Madre e Figlio | |
Summary
“Mutter und Sohn/ Mat’i Syn”; di ALEKSANDR SOKUROV; con GUDRUN GEYER, ALEXEL ANANISHNOV; drammatico; Russia, 1997; durata: 73’; |
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