Impegnata nella realizzazione di un film di impegno civile sulla difficile situazione della classe operaia con protagonista un celebre attore americano (John Turturro), la regista di successo Margherita (Margherita Buy) sta attraversando un periodo difficile: infatti, oltre a dover affrontare i problemi adolescenziali della figlia Livia (Beatrice Mancini), con l’aiuto del fratello Giovanni (Nanni Moretti) deve anche accudire la madre Ada (Giulia Lazzarini), gravemente malata.
Come è risaputo, il cinema di Moretti si basa da sempre sull’assunto che lo stesso autore debba esserne a tutti gli effetti il protagonista, con le forme e i toni del racconto dettati in primis proprio dalla sua quasi assoluta centralità (dentro e fuori dalla storia, davanti e dietro la macchina da presa). E questo suo dodicesimo film, da lui come di consueto anche co-prodotto (con la sua Sacher Film in collaborazione con la Fandango di Procacci) e co-sceneggiato (con Valia Santella e la garanzia Francesco Piccolo), non fa eccezione; eppure, pur coerente con il suo itinerario sia dal punto di vista stilistico che sul piano contenutistico (i riferimenti alla denuncia sociale tra le pieghe di un’analisi antropologica costellata di simboli psicanalitici), “Mia Madre” si presenta come un prodotto che però, quasi paradossalmente data la matrice dichiaratamente autobiografica, appare meno inflazionato da quell’imposizione del suo io che, proprio perché così palese ed insistita, anche agli occhi dei detrattori risulta comunque a suo modo esemplare nelle mire di denuncia alle derive sociali e agli allontanamenti dagli ideali. Infatti, questa volta l’ormai ben riconoscibile impronta “morettiana” pare quasi filtrata in un approccio spostato e laterale, attuando una sorta di distanziamento di accezione brechtiana attraverso cui, nell’atteggiamento di un osservatore che si trova al centro di un conflitto, Moretti teorizza il concetto (peraltro esplicitamente espresso dalla protagonista Margherita) dell’attore accanto al personaggio, sdoppiandosi per mostrare due facce di sé all’interno di un film in cui “accanto” c’è sempre qualcos’altro: alla saggezza di cui si fa portatore in veste di attore nei panni di Giovanni si contrappone una nevrosi che l’autore stempera invece al femminile delegandola alla protagonista Margherita, con il primo che resta vicino alla seconda (la quale lo ritiene meno inadeguato rispetto a se stessa) come Moretti regista resta accanto alla Buy interprete (straordinaria), che di lui è alter-ego e catalizzatore di quella che è forse una nuova, inaspettata insicurezza appoggiata ad un’autentica cognizione del dolore; così, diversamente da “La Stanza del Figlio”, in cui l’elaborazione del lutto era il tema centrale da cui scaturiva il conflitto alla base (ovvero il bisogno di dare un senso ad una sofferenza intollerabile anche e proprio perché in realtà insensata), in quest’ultimo film al resoconto di una simile afflizione si accompagna quello di una crisi esistenziale che, avviluppandosi a tale dolore annunciato, trova in qualche modo una sorta di propria sublimazione. Immerso in un’atmosfera rarefatta ed avvolgente (ben sottolineata dalle musiche di repertorio che vanno da Arvo Pärt a Philip Glass fino a Leonard Cohen), l’itinerario procede seguendo con certa audacia il flusso di coscienza della protagonista, reso con un registro narrativo stratificato che con misura riesce ad equilibrare armoniosamente dolore e risata, realtà e sogno, vita e morte, il tutto in dialettica contrapposizione tra realtà e finzione attraverso un continuo scambio di rimandi anch’esso affrontato con un duplice approccio: da una parte ci sono i ricordi del passato e le paure del presente che, attraverso flashback evocativi, incursioni oniriche e allusivi incroci di linguaggi (non solo il mestiere del cinema, ma anche lo studio del latino), si rovesciano nell’azione oggettiva per convergere nello sguardo di Margherita (e quindi di Moretti), mentre dall’altra c’è il cinema come contesto ed espressione, con la figura dell’attore hollywoodiano (un azzeccato Turturro a cui è affidata la ben innestata vena umoristica) che non solo diviene personificazione dello stress che attanaglia la protagonista, ma incarna anche con sarcastica buffoneria gli artifizi di quella rappresentazione fittizia che può diventare un veicolo di autenticità, pur con esiti incerti. Eppure, focalizzandosi così ancor più che in precedenza sul tema a lui non nuovo dell’inadeguatezza (cruciale anche nel precedente “Habemus Papam”), in questo caso risulta sicuramente più autentico il modo in cui Moretti riesce a cesellare la materia, intingendo la sobrietà della narrazione in un misurato pudore che, nonostante e proprio perché dovuto alla dimensione autobiografica, come suddetto questa volta prevale sul conclamato egocentrismo autoreferenziale dell’autore-attore, permettendogli così di scendere meglio tra gli spettatori: snodando così con tatto e perizia un tessuto tematico di pregnante valore umano (ben trasmesso anche dalle vibranti performance della veterana del teatro Giulia Lazzarini e della giovane esordiente Beatrice Mancini), Moretti compenetra gli elementi in una laica pietas attraverso cui la sua identificazione coincide con la nostra, attivando un coinvolgimento genuino e sincero anche perché capace di sedimentare una condizione (purtroppo) universale. Anche per questo motivo, il tutto connesso alla non convenzionale eppure del tutto limpida fluidità di una costruzione orchestrata con mano ferma, libera dalla retorica e sapientemente equilibrata nei toni e nello stile, “Mia Madre” (già annunciato come uno dei tre film italiani in concorso al prossimo festival di Cannes) dimostra così di possedere la forza, l’efficacia e la profondità adeguate per imporsi come uno tra i più maturi ed armoniosi film di Moretti.
Mia Madre | |
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Summary
id.; di Nanni Moretti; con Margherita Buy, Nanni Moretti, John Turtrurro, Giulia Lazzarini, Beatrice Mancini, Enrico Ianniello, Petro Ragusa, Stefano Abbati, Anna Bellato, Domenico Diele, Davide Iacopini, Lorenzo Gioielli, Tatiana Lepore, Renato Scarpa; drammatico; Italia/ Francia, 2015; durata: 106'. |
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