L’esuberante Diane (Anne Dorval), giovane vedova e madre di un ragazzo, si vede costretta a prendere in custodia a tempo pieno suo figlio Steve (Antoine-Olivier Pilon), un turbolento quindicenne affetto dalla sindrome da deficit di attenzione. Mentre i due cercano di far quadrare i conti, scontrandosi e discutendo, l’originale Kyla (Suzanne Clément), nuova ragazza del quartiere, offre loro il suo aiuto. Insieme, i tre troveranno un nuovo equilibrio che forse potrebbe far tornare la speranza.
C’è un momento nel quinto film da regista (il primo distribuito in Italia) dell’enfant prodige québécois Xavier Dolan (classe 1989) che fa venir voglia di alzarsi in piedi ed applaudire: sulle note degli Oasis, il protagonista che corre sullo skateboard allarga letteralmente l’inquadratura e così l’immagine riempie lo schermo; è uno dei rari squarci di sollievo in cui quel desueto formato 1:1 che fino ad un attimo prima sacrificava il campo visivo ad un quadrato compresso si estende finalmente al classico 16:9. Una scelta coraggiosa e rischiosa che però un suo scopo ce l’ha eccome, e che perciò non rappresenta il vezzo di un regista impulsivo, imponendosi bensì, al contrario, come uno tra i più evidenti elementi stilistici a denotare in maniera lampante l’eccezionale padronanza di linguaggio di uno dei più giovani e al tempo stesso promettenti autori del panorama internazionale, già perfettamente capace di raccontare, coinvolgere ed emozionare in maniera diretta e profonda, con una voce pressoché unica e una personalità già molto ben definita. Perché dietro le apparenze da dramedy familiare dal sapore anni ’90 c’è in realtà molto di più, non solo per le tematiche che lo animano, ma soprattutto per l’inedito approccio e la matura complessità con cui le stesse sono affrontate: nel delineare gli sviluppi e le sensazioni di una difficile relazione tra una madre e suo figlio che, decantata in una guarda caso stonata versione al karaoke di “Vivo per Lei”, diventa in seguito un affettuoso rapporto a tre fondato sul bisogno reciproco di sostenersi ed immortalato in un selfie a ralenti, Dolan opta per una messa in scena più barocca e controllata ma non per questo meno libera, facendo coincidere la personalissima scrittura stilistica con la freschezza dei dialoghi e l’ammirevole e preciso disegno dei personaggi unito alla brillante direzione dei magnetici interpreti (eccellente Suzanne Clément e suprema Anne Dorval), il tutto riuscendo a coinvolgere in maniera diretta, profonda, viscerale. Facendovi confluire quegli elementi autobiografici già messi in luce nel folgorante esordio J’ai tué ma mère (di cui per la tematica portante Mommy può rappresentare una sorta di rovescio della medaglia), in questo melodramma pop tenero e sfacciato, impetuoso e naif, Dolan ripropone un altro complesso, appassionato e a tratti disperato rapporto madre-figlio affrontando la materia con una nuova e più matura consapevolezza: attenuata la componente “queer” delle sue opere precedenti senza però sopprimerla (il gusto kitsch della confezione, le ambiguità del protagonista, la tensione nel rapporto tra la madre e l’amica, la ricerca di un equilibrio nei rapporti al di fuori dei canoni), si avventura con coraggio in percorsi narrativi inattesi e centra soluzioni stilistiche sorprendenti, il tutto dimostrandosi abilissimo nel generare immagini e sequenze di rara forza espressiva (sottolineate da un montaggio serratissimo e una soundtrack evocativa composta da celebri canzoni), alternando al contempo racconto popolare e finezze d’autore, lacrime e sorrisi, amore e violenza, furia e tenerezza. E quando, nei momenti di serenità come il succitato, l’immagine può finalmente riempire lo schermo, quel senso di apertura che diventa pienezza contagia lo spettatore, anch’esso finalmente liberato dalla costrizione di una visione “ristretta” che lo rende a suo modo partecipe della condizione dei personaggi, tallonati dalla macchina da presa e compressi in uno spazio decisamente claustrofobico (che ammette un solo viso alla volta) come ad esprimere il senso di costrizione in una dimensione imposta dalla società e non adatta a loro, imprigionati forse come tutti noi in una gabbia emotiva da cui, appunto, solo l’apertura data dal sogno e dall’arte possono aiutare a rendere liberi. Da non perdere. Premio della giuria al festival di Cannes, ex-aequo con Adieu au Langage di Jean-Luc Godard.
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Summary
id.; di Xavier Dolan; con Anne Dorval, Antoine-Olivier Pilon, Suzanne Clément, Alexandre Goyette, Patrick Huard; drammatico; Canada, 2014; durata: 134 minuti. |
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