La bella attrice Elisabeth Vogler (Liv Ullman) perde improvvisamente la parola durante una rappresentazione teatrale dell’Elettra, sprofondando in seguito in un totale mutismo. Per aiutare la donna ad uscire da questa condizione autoimposta, la giovane ed inesperta infermiera Alma (Bibi Andersson) decide di portarla con lei per trascorrere un periodo di recupero in una casa in riva al mare. In tale circostanza, tra le due donne ben presto si instaurerà uno strano e complesso rapporto dai risvolti inaspettati.
Le luci si accendono, una pellicola scorre, ed ecco una serie immagini in rapida successione: da fotogrammi accelerati di un film muto ad un bambino che allunga la mano verso uno schermo su cui si proietta un viso femminile, da un agnello sgozzato ad un chiodo piantato nel palmo di una mano, da un grande ragno nero ad un pene sovrapposto a disegni animati, fino alla sconvolgente vista di un cadavere. È lo straniante incipit di Persona, evocativo titolo derivato non a caso dalla locuzione Dramatis persona, che nel teatro latino indicava la maschera, il personaggio; una sequenza d’apertura folgorante in cui Bergman, tra allusioni, simbolismi, immagini evocative ed elementi che evocano il suo cinema, suggerisce da subito che ciò a cui stiamo assistendo è alla fine una finzione (“La cosa che non si può negare al mio film è che doveva essere un film”, dichiarò lo stesso regista), introducendo al tempo stesso quel ricorrente richiamo all’inconscio collettivo junghiano che è uno dei cardini principali di un’opera in cui tale simbolismo emozionale è inscindibile dall’estetica: tra risvolti metacinematografici ed immagini evocative (fotografia del fido collaboratore Sven Nykvist), la “macchina del cinema” è scardinata per mostrarci il suo interno, come avvertendoci che l’intento è quello di fare lo stesso con l’individuo, per guardare nella sua interiorità ed indagare sui più profondi strati della psiche. In quella che, tra le sue opere più mature, è anche la più sperimentale, Bergman punta infatti, attraverso un’impostazione stratificata a più livelli (psicologico, ideologico e simbolico), ad esprimere la forte inquietudine che risiede nella ricerca di un senso esistenziale affrontando alcuni dei suoi temi prediletti con un radicale pessimismo di fondo, il tutto riconnettendo il personale discorso sulla Fede (anch’esso ricorrente nel cinema del Maestro) alla dialettica del precedente Il Silenzio: tra opprimente incomunicabilità, profonda alienazione, confessioni sofferte, devastanti sensi di colpa e perenne tormento davanti al mistero dell’esistenza e all’incombenza di una nullità che pare ineluttabile, le diverse condizioni delle due eccellenti protagoniste (ovvero il mutismo di Elisabeth e il percorso spirituale di Alma) troveranno un punto d’incontro e finiranno per congiungersi e confondersi, tanto che ad un certo punto sarà quasi difficile distinguere tra una e l’altra; un parallelismo portato all’unità estrema, introdotto dalla vista su un treno della parola “anima” e i cui principali punti nodali sono individuabili in due passaggi estremamente significativi: da una parte il momento (definito da Bergman come “scena-specchio”) in cui Alma (ovvero “anima”, appunto) osserva Elisabeth dormire, percependo il suo stato d’animo e facendo così scattare il determinante scambio di personalità, dall’altra la sequenza (capace di esprimere in pochi attimi alcuni degli snodi chiave della poetica di Bergman) in cui Alma si dedica alla lettura di un passaggio che rispecchia perfettamente il senso di profonda inquietudine che entrambe, seppur in modo differente, percepiscono fortemente: un’angoscia costante e dolorosa scaturita dalla consapevolezza della nostra condizione terrena e dalla conseguente paura di non trovare una salvezza ultraterrena di fronte all’amara cognizione dell’ineluttabile caducità di un’esistenza costellata di ansie, silenzi, crudeltà, sogni irrealizzati. Tutto ciò concentrato e ribadito nel momento memorabile in cui, manifestando peraltro il fulcro hegeliano dell’opera, i volti delle due donne si incontrano fino ad unirsi e quindi confondersi, appunto, l’uno con l’altro: l’interiorità riflessa di entrambe finisce per occultarsi e rifugiarsi nella trasfigurazione dell’una nell’altra, in un meccanismo di doppia lettura a molteplici livelli (psichico, intimo, spirituale) che finisce per ammaliare, coinvolgere e travolgere.
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Summary
id.; di INGMAR BERGMAN; con BIBI ANDERSSON, LIV ULLMANN, GUNNAR BJORNSTRAND, MARGARETHA KROOK, JORGEN LINDSTROM; drammatico; Svezia, 1966; B/N; durata: 86’; |
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