La relazione fra il giovane afroamericano Chris (l’ottimo emergente britannico Daniel Kaluuya, finalmente promosso al ruolo di protagonista) e la sua fidanzata bianca Rose Armitage (Allison Williams, al primo ruolo di peso al cinema dopo alcune felici esperienze televisive) è arrivata al momento chiave di coinvolgere i parenti, tanto che il ragazzo, pur con una certa riluttanza, accetta l’invito di passare un weekend fuori città a casa dei genitori della fidanzata. Una volta a destinazione, Chris viene quindi accolto dal padre Dean (Bradley Whitford), neurochirurgo di una certa fama, e dalla madre Missy (Catherine Kenner), psicoterapeuta che pratica l’ipnosi, i quali però si mostrano da subito sin troppo accomodanti. In un primo momento il ragazzo interpreta tale comportamento come una sorta di reazione nervosa alla sua relazione interrazziale con Rose, ma con il passare del tempo una serie di inquietanti scoperte lo conduce a una verità che non avrebbe mai potuto immaginare, trasformando il suo soggiorno in casa Armitage in un minaccioso incubo in cui si rende conto potrebbe rimanere intrappolato.
È un’autentica e graditissima sorpresa questo esordio alla regia dell’attore e comico Jordan Peele (anche autore della sceneggiatura), il quale, partendo da uno spunto simile a quello del classico Indovina chi viene a Cena?, l’ha rielaborato in chiave horror calandolo in un clima da cinema della minaccia che rimanda a The Wicker Man e La Fabbrica delle Mogli, realizzando così un piccolo-grande thriller orrorifico sui generis: infatti, in un abile gioco di rimandi e ribaltamenti (il giardiniere che corre nella notte, l’ambigua domestica, gli strambi invitati alla festa), il film inizia nelle false apparenze di una commedia sociale per poi cambiare tono rivelando la sua vera natura di angoscioso racconto di spavento e sfociare infine in una violenza da Grand Guignol, il tutto condotto su un filo di ben orchestrata tensione paranoica alla Rosemary’s Baby pur mantenendo in filigrana una sottile dimensione di divertita ironia, in gran parte affidata all’ottimo Lil Rel Howery nella parte dell’amico che, da agente antiterrorismo, sa bene che il male si annida all’interno; perché in tutto ciò il film palesa infatti ben presto i suoi intenti di critica sociale (non priva appunto di risvolti satirici), tanto da farne la struttura portante della narrazione: in questo caso l’orrore da cui fuggire è infatti quello reale e perciò davvero spaventoso del razzismo, qui trattato in maniera tutt’altro che semplicistica mettendo alla berlina quell’ideologia contraddittoria che nel rifiutare i pregiudizi e gli stereotipi in realtà li cavalca e se ne appropria, riconoscendo negli individui di colore alcune determinate caratteristiche da ricercarsi in un patrimonio genetico superiore (le maggiori doti sportive, artistiche o amatorie) in una sorta di feticismo estremizzato che nel film assume la forma iperbolica di un neo-schiavismo quasi antropofago; infatti, uno degli elementi vincenti dell’opera (anche perché pressoché inedito nonché davvero efficace nel suo schietto disincanto) sta proprio nell’identificare tali antagonisti non nei redneck sostenitori di Trump, bensì in quell’élite alto-borghese che si professa a gran voce liberale e progressista (il padre di Rose ci tiene ad affermare che se avesse potuto avrebbe votato Obama una terza volta) ma in realtà si dimostra tale soltanto a parole, rivelando infatti ben presto l’ipocrisia dissimulata dietro ad un finto perbenismo a cui può fare da spia proprio un eccessivo e quindi magari sospetto ricorso al politicamente corretto. È la sensazione di disagio, diffidenza e ostilità percepita dalla comunità afro-americana in una società che nell’era post-Obama sta nuovamente esponendo con dolore le ferite sempre aperte delle tensioni razziali: un tema pregnante ed attualissimo sviscerato con efficacia in quello che in definitiva è un film dell’orrore quotidiano, confermando peraltro che nella sua espressione più nobile (ed è questo il caso, visto che si tratta forse del miglior horror della stagione) tale genere può puntare proprio a sfruttare il terrore per combattere mostri reali. Così, identificandosi con consapevolezza e partecipazione con il suo protagonista, l’afroamericano Peele mette in scena il tutto con spregiudicata originalità in forma di immediata ma efficace allegoria di inquietante e coinvolgente suggestione, notevole nella tenuta della suspense e non priva di inventiva anche sul piano visivo (si vedano i momenti dell’ipnosi con la coscienza di Chris che fluttua nell’oscuro vuoto del “mondo sommerso”), il tutto evitando velleitari virtuosismi anche a causa di un budget ristretto che però non ha ridotto le ambizioni né precluso il riscontro con il pubblico: infatti, confermando peraltro la lungimiranza della casa di produzione Blumhouse (specializzata in prodotti di genere a basso costo ma molto forti al botteghino), a fronte di un costo di appena 4,5 milioni di dollari il film ne ha incassati ben oltre 230, diventando non solo uno dei più grandi successi per un’opera di debutto con una sceneggiatura originale (non a caso meritatamente premiata con l’Oscar), ma anche uno dei più fortunati risultati di quell’emergente drammaturgia afro-americana che (sulla scia del premiatissimo Moonlight) continua così a consolidare con grande merito la propria vitale identità.
Scappa - Get Out | |
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Summary
"Get Out"; di Jordan Peele; con Daniel Kaluuya, Allison Williams, Bradley Whitford, Caleb Landry Jones, Stephen Root, Lakeith Stanfield, Catherine Keener, Betty Gabriel, Lyle Brocato, Ashley LeConte Campbell, Marcus Henderson, LilRel Howery; horror; USA, 2017; durata: 103'. |
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