Indonesia: tra il 1965 e il 1966 il generale Suharto prende il potere e dà il via a una delle più sanguinose epurazioni della Storia. Con la complicità e il supporto dell’esercito indonesiano, gruppi para-militari massacrano oltre un milione di persone, tra comunisti, minoranze etniche e oppositori politici. Nato nel 1968, Adi non ha mai conosciuto suo fratello, mutilato e ucciso barbaramente da alcuni membri del Komando Aksi nell’eccidio del Silk River. Il regista Joshua Oppenheimer porta Adi a incontrare e confrontarsi con i responsabili di quell’atroce delitto, in un percorso che ha come obiettivo quello di tutti i grandi viaggi: la ricerca e l’affermazione della verità.
Due anni dopo l’acclamato, splendido e sconvolgente “The Act of Killing” (candidato all’Oscar), il talentoso documentarista Joshua Oppenheimer (texano trapiantato in Danimarca, che ha trascorso quasi dieci anni in una comunità di sopravvissuti a nord di Sumatra) ne realizza un doveroso contraltare come ulteriore integrazione alla materia (che attraverso il mezzo cinematografico diventa mediazione etica ed estetica), tornando sullo stesso soggetto adottando però un differente punto di vista, ribaltandone così la prospettiva: se dapprima si focalizzava sul rapporto tra repressione della colpa e rievocazione della verità filtrata nella finzione, mostrando l’orrore attraverso le ricostruzioni dei veri carnefici (capaci di “rimettere in scena” quel che facevano con una naturalezza raccapricciante), questa volta cerca una risposta e si concentra su quello tra responsabilità e rimozione della memoria, lasciando le redini del discorso al fratello di una vittima, deciso a cercare quel pentimento mai dimostrato, sempre rifiutato o addirittura mai contemplato. Tutto ciò avviene attraverso le testimonianze raccolte dal protagonista, contrapposte ad immagini meno recenti degli assassini che di nuovo, in confessione davanti alla macchina da presa, non mostrano alcun segno di vergogna o ripensamento, rievocando anzi il tutto con terribile esaltazione: molti affermano di aver solo eseguito gli ordini, altri ammutoliscono, mentre dall’altra parte la rabbia incredula dello spettatore coincide questa volta con la rassegnazione disperata del protagonista, tanto che uno “sguardo di silenzio” si rivela forse l’unica risposta possibile. Più intimo eppure ancora estremo, maggiormente strutturato nel suo approccio meno asciutto ma certamente non meno nitido ed incisivo, al dinamismo furioso del precedente sostituisce atmosfere più rarefatte, mentre il confronto tra vittime e carnefici è snodato attraverso una ben più vasta partitura di densi primi piani (che riescono a trasmettere più di un importante fremito di verità) e rimarcato da due spunti allegorici d’effetto, ovvero il messere dell’oculista di Adi (che osserva gli sguardi e pare misurarne le gradazioni di umanità), e i bachi da seta che non riescono a diventare farfalle, come metafora del drammatico dilemma etico di fondo: se da una parte il colpevole continua a negare il pentimento, e se dall’altra a ciò si risponde con un rifiuto del perdono spontaneo, i drammi del passato diventano una maledizione impossibile da sciogliere, finendo per intrappolare vittime e carnefici in un’immobile ed agghiacciante assuefazione all’orrore, e rischiando così di far sprofondare la memoria nell’oblio del succitato doloroso, assordante silenzio. Prodotto, tra gli altri, da Werner Herzog ed Errol Morris, è stato presentato in Concorso alla 71esima mostra d’arte cinematografica di Venezia, dove ha ottenuto il premio speciale della giuria e il premio FIPRESCI.
The Look of Silence | |
The Look of Silence | |
Summary
id.; di Joshua Oppenheimer; documentario; Danimarca/ Norvegia/ Finlandia/ G.B., 2014; durata: 102’. |
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