Belgrado, 1941. Dopo il primo raid tedesco sulla città, il partigiano e borsanerista Marko (Miki Manojlovic) accoglie in un sotterraneo un nutrito gruppo di rifugiati, tra cui anche l’amico Petar, detto “Il Nero” (Lazar Ristovski), a sua volta innamorato della bella attrice Natalija, convincendoli a fabbricare armi e prodotti per il mercato nero. Tre anni dopo, divenuto nel frattempo un pilastro del regime socialista di Tito, Marko continua a tener nascosto l’amico, ormai invece creduto morto e quindi onorato come eroe dalla Resistenza, facendo credere all’intero clan che all’esterno la guerra continua. Tale situazione durerà fino al 1961, quando l’inganno verrà accidentalmente svelato portando a sviluppi inaspettati le cui conseguenze si protrarranno per i successivi trent’anni.
Brillantemente sceneggiato dal drammaturgo Dusan Kovacevic e diviso in tre ampi atti (la guerra, il dopoguerra e il nuovo conflitto), questo quinto, straordinario film di Emir Kusturica si impone come il manifesto espressivo, tecnico e teorico del grande autore bosniaco. Infatti, nel suo svolgimento magmatico e vorticoso (che come tale rispecchia gli imprevedibili sviluppi dell’esistenza), è un’opera che vive di una debordante e barocca sovrabbondanza di toni ed elementi che, sfuggendo a qualsiasi canonica e riduttiva classificazione, ne diventa geniale e personalissima chiave stilistica e narrativa: così, scandito dal confacente ritmo forsennato delle fanfare gitane del celebre compositore Goran Bregovic (la cui colonna sonora ottenne non a caso un meritato successo), questo racconto stratificato e polifonico si sviluppa come una schizoide e picaresca commedia tragica in musica nella quale si alternano passaggi di straziante tragicità e momenti di sapido umorismo di costume, contrastate passioni amorose e giocosi riti collettivi, squarci di crudo realismo storico e onirici ricordi felliniani, aspra critica politica e perfino incursioni nel meta-cinema; il risultato è una sorta di “film-mondo” in cui, anche attraverso una continua correlazione tra passato e presente, si viene da subito catapultati per poi ritrovarsi sballottati nei caotici flutti di un irrefrenabile susseguirsi di eventi, personaggi, suoni e colori da cui si esce frastornati, esaltati e al tempo stesso vulnerati come dopo una sfrenata ubriacatura balcanica. In ciò, citando la bella ed azzeccata descrizione di Morandini, quest’opera avvolgente e stratificata “fa pensare ad Alice nel Paese delle Meraviglie riscritto da Kafka, con Hyeronimus Bosch come scenografo e Francis Bacon direttore della fotografia”, il tutto elevato a personalissimo affresco corale che nel suo piglio quasi grottesco contrappuntato da una fitta rete di rimandi e metafore palesa la sua potente carica allusiva rivelando una scottante e complessa ambiguità tematica di fondo; a tal proposito, tra un crocefisso su uno sfondo di bombe a rappresentare la guerra religiosa e un tunnel verso il Danubio come simbolo di difficile ricerca, il triangolo romantico assurge invece ad incarnazione di una nazione di ideali contrapposti in conflitto anche con se stessa, mentre nel richiamo alla caverna del mito di Platone che diviene spunto per il centrale snodo di trama (il sotterraneo da cui si percepisce solo un’ombra distorta di verità) può risiedere inoltre la chiave per decifrare la discussa quando cruciale ambiguità socio-politica di fondo: da tempo rinnegata la propria patria e sposata la causa serba, nel raccontare la fine di un’epoca anche l’autore si affida a una manipolazione della realtà ormai divenuta parte integrante di una personalissima poetica che nel suo iperbolico surrealismo appare appunto a sua volta da sempre animata da un’etica costantemente contraddittoria quanto (come tale) assai significativa. Emblematica in questo senso è la sequenza finale, nella quale (memorabile come quella d’apertura, con il bombardamento dello zoo di Belgrado e gli animali che si aggirano tra le macerie) viene mostrato il lembo di terra su cui tutti sono radunati staccarsi dal continente e vagare alla deriva verso un futuro ignoto di rimpianti o aspettative per una nazione il cui ricordo è forse sempre stato soltanto un’illusione. Non a caso, il film fu definito “un necrologio” dallo stesso regista: se il termine “Underground” ne riassume lo svolgimento, il sottotitolo “C’era una Volta un Paese…” (con il quale fu trasmesso dalla televisione serba in versione estesa come miniserie di cinque ore) ne contiene l’essenza. Realizzato quando la guerra in Bosnia ancora imperversava, fu accolto con sonore polemiche fin dall’anteprima al festival di Cannes, dove tuttavia si aggiudicò la Palma d’Oro (la seconda per il regista dopo quella ottenuta nel 1985 con Papà è in Viaggio d’Affari).
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Summary
id.; di EMIR KUSTURICA; con MIKI MANOJLOVIC, MIRJANA JOKOVIC, LAZAR RISTOVSKI, SLAVKO STIMAC, BORA TODOROVIC, DAVOR DUJMOVIC, ERNST STOTZNER, SRDJAN TODOROVIC; drammatico; Francia/ Germania/ Jugoslavia/ Ungheria, 1995; durata: 185’; |
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