Quale temeraria, rischiosa, immensa ambizione anima e pervade il 6° film di Paolo Sorrentino (che lo ha scritto con Umberto Contarello), unico italiano In Concorso al 66° festival di Cannes e vincitore dell’Oscar come miglior film straniero? Nel segno di Fellini e in particolare della sua Dolce Vita (ma ci sono anche Roma e 8 1/2), il giustamente elogiato autore partenopeo ne riprende e ne rievoca gli elementi, le suggestioni e le trasfigurazioni, riversandoli nel contesto contemporaneo come in una visione postmoderna e personalizzata.
Così lo spettatore è accompagnato nel rassegnato peregrinare del disincantato protagonista Jep Gambardella (un Toni Servillo sempre meritevole di plauso), neo-65enne scrittore di un unico libro dal titolo allusivo (“L’apparato umano”), attraverso una maestosa e spudorata Roma “Cafonal” post-felliniana, evolutasi in peggio, tra salottismo estremo, feste trasgressive, sottile umorismo (vedere i personaggi di Popolizio e di Petrolo) e folli divertimenti fini a se stessi (“I trenini delle feste sono quelli che preferisco, perché non vanno da nessuna parte”, enuncia il protagonista), il tutto in un sottobosco culturale popolato da un bestiario umano decadente e marcescente: borghesia intollerabile, incomprensioni della cultura, personaggi televisivi infarciti di botox e cocaina, sciacallaggio giornalistico, nobili in disgrazia, pseudo intellettuali (uno di loro dichiara “il mio scrittore preferito è Proust, però anche Ammaniti…”), membri delusi di quella sinistra radical chic che ha solo fallito (ben percepibile nella scena sulla terrazza con Galatea Ranzi); e ancora amici perdenti e disillusi (il personaggio di Verdone, romano di nome e di fatto), spogliarelliste di mezza età con segreti e turbe imprevedibili (una Sabrina Ferilli notevole e sorprendente) e suore centenarie che paiono custudodire il segreto dell’esistenza (il personaggio chiave della “Santa” il cui rifiuto di velleità materiali a favore della pienezza spirituale può alludere al tempo stesso all’importanza delle radici e delle opportunità di vivere di sentimenti). È il rigurgito di una società che ha smesso di credere, deturpando la bellezza della cosiddetta città eterna, servendosi della stessa per esporre il proprio cinismo, e contribuendo ad alimentare il vuoto culturale che annebbia l’Italia intera. Trascinandoci in questo stordente, riflessivo e un po’ frastornante tourbillon della vita, Sorrentino ha messo in piedi un film ambiguo, complesso, difficile da giudicare nella sua liquida espansione di sentimenti e personaggi. Perché “La Grande Bellezza” è un’opera che vive delle sue stesse contraddizioni: fondendo opposti inconciliabili, vi convivono sublime e grottesco, mesto e maestoso, lirismo emozionale e cinismo funereo, nel tentativo di raccontare una profonda vacuità affidandosi però ad uno stile strabordante ed opulento; uno stile pregno, avvolgente e suggestivo, con cui, attraverso un’estetica e una tecnica pulsanti e fiammeggianti, tra brevi scorci e larghissime panoramiche (con virtuosistici movimenti di camera e il grande apporto del direttore della fotografia Luca Bigazzi), il regista conferma il suo valore encomiabile nella tecnica d’espressione/esposizione e nella mirabile percezione delle atmosfere (come anche, tra l’altro, nella gestione degli attori-personaggi, tutti degni di nota). D’altra parte, nel suo vasto assortimento di allusioni e analogie, parentesi oniriche e incursioni surrealiste, misticismi e simbolismi, rimandi e citazioni (da Faulkner a Dostoevskij, da Bellow fino a Céline, la cui epigrafe da “Viaggio al termine della notte” apre la pellicola), il film sembra a tratti indugiare nelle sue stratificazioni concettuali e nei suoi riferimenti testuali; eppure, pur sfiorando talvolta la ridondanza autoreferenziale (specie nelle ellittiche intuizioni filosofeggianti ed intellettualistiche) anche tali dilatazioni risultano funzionali al racconto, non intaccando l’efficacia della messa in scena e dell’esposizione dei contenuti, ma alimentandone anzi la forza evocativa. Anche a questo proposito, ridurre un’opera così composita e sfaccettata ad un esercizio di stile fine a sé stesso sarebbe dunque decisamente riduttivo, ingeneroso ed infondato; infatti, anche il succitato accostamento a Fellini appare, all’interno, minuziosamente studiato ed affrontato con piglio attento e personale, nonché mirato ad un diverso fine riflessivo: se nella sua unica visione di un preciso momento storico-sociale il Maestro era provocatorio e rivoluzionario (creando strappi e dibattiti nello scenario post-neorealista), lo sguardo di Sorrentino pare più soffice e frenato, puntando ad un tono sovversivo che però cerca invece un conforto, un riscatto, una speranza. E se fosse proprio questa la “grande bellezza” che l’emblematico titolo conclama? Ovvero la ricerca di una salvezza nella quale ritrovarsi e rifugiarsi dall’inerzia e dal disincanto del tempo che passa, come sprazzi di fascino e di emozione perduta (o ritrovata) in cui riconoscere l’imbarazzo di stare al mondo; o magari è proprio quel candore meravigliato al cospetto dell’esibizionismo di una Roma solenne e spudorata, decadente ma irresistibile, a tratti insopportabile eppure sempiternamente attraente. Anche se d’altra parte, come una giraffa che scompare, una morte rifiutata, un surreale stormo di fenicotteri o il miraggio di un amore giovanile dimenticato, il tutto in realtà potrebbe magari soltanto finire per rivelarsi “un trucco”.
La Grande Bellezza | |
La Grande Bellezza | |
Summary
id.; di Paolo Sorrentino; con Toni Servillo, Carlo Verdone, Sabrina Ferilli, Carlo Buccirosso, Iaia Forte, Pamela Villoresi, Galatea Ranzi, Anna Della Rosa, Giovanna Vignola, Roberto Herlitzka, Massimo De Francovich, Giusi Merli, Giorgio Pasotti, Massimo Popolizio, Isabella Ferrari, Franco Graziosi, Sonia Gessner, Luca Marinelli, Dario Cantarelli, Ivan Franek, Anita Kravos, Luciano Virgilio, Vernon Dobtcheff, Serena Grandi; drammatico; Italia/ Francia, 2013; durata: 150'. |
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2 Comments
Myles D. Osborne
“Roma ti fa perdere un sacco di tempo”: sì, in questo caso con il nulla. Gestire bene il nulla è un lavoro a sé. La Grande Bellezza è davvero un film sul nulla, il che è già impresa titanica di per sé. Figurarsi se a farlo è un regista con lo stile strabordante che ha Sorrentino. E infatti la macchina da presa si dà a voli pindarici da mal di testa, c’è tanta musica musica musica, ci sono addirittura echi da The Tree of Life di Malick e giraffe che scompaiono grazie a prestigiatori apparsi dal nulla. Ma lo stile (ri)trova il suo senso dopo il passo falso di This Must Be The Place .
Agegiofilm
Ci sta tutta, un’altro film che devo guardare, ed è strano, perché nella selezione naturale che fai, con le poche notizie e recensioni che ho letto di cinema al cinema, ci sono tutte le mie scelte. Sorrentino mi ha colpito fin da Il divo, ma andando indietro non si è mai reso disponibile all’intrattenimento. Poi, vogliamo parlare del mio amore per Otto e mezzo? Rivederselo un’altra volta, sotto altre vesti, dopo altri travestimenti, è sempre un piacere.