Sull’isola di Bora Bora, un giovane pescatore (Matahi) si innamora della più bella ragazza del villaggio (Reri), scelta però come vergine consacrata, e quindi intoccabile. Scoperto però l’amore reciproco, i due decidono di ribellarsi e fuggire su un’isola vicina, ma l’integerrimo sacerdote (Hitu), deciso a far rispettare la volontà divina, parte alla loro ricerca.
Rescisso il contratto con la Fox e archiviata così la breve e deludente esperienza americana, il regista tedesco Murnau cercava nuovi mezzi per tornare a lavorare in patria quando la sua strada s’incrociò con quella del documentarista americano Robert J. Flaherty (a sua volta refrattario alle restrizioni imposte dell’industria hollywoodiana), con il quale decise quindi di unire le forze per sviluppare un progetto indipendente con cui ritrovare una più ampia libertà creativa. Nacque così quello che originariamente avrebbe dovuto intitolarsi “Turia”, lungometraggio girato interamente nei Mari del Sud con attori non professionisti originari di Tahiti e inizialmente concepito come opera da realizzarsi appunto in totale cooperazione con Flaherty (non nuovo all’esperienza con i nativi e le leggende locali), il quale finì però per dirigerne soltanto la sequenza iniziale: infatti, pur avendo partecipato attivamente alle fasi di preparazione, sopralluogo e scrittura, una serie di difficoltà tecniche e produttive sfociate in profonde divergenze con il collaboratore costrinsero ben presto il documentarista a lasciare la regia al solo Murnau e ad abbandonare il set, restando comunque coinvolto nella produzione (lavorando prettamente in laboratorio) ma comparendo nei crediti soltanto in qualità di co-sceneggiatore. Tuttavia, pur appartenendo quindi quasi totalmente all’autore tedesco (che dopo tali vicissitudini prese in mano le redini della produzione e modificò in parte la sceneggiatura, cambiando il titolo in “Tabù” e accantonando inoltre la comune intenzione di girarlo a colori), il film riflette comunque per certi versi l’influenza del pioniere del documentario, specialmente nella fase introduttiva; non a caso, nella sua strutturale divisione in due tempi (denominati “Il Paradiso” e “Il Paradiso Perduto”), il primo si sviluppa con un taglio più etnografico e solare, mentre il secondo vira su quei toni cupi e pessimisti (trovando l’apice nel drammatico capovolgimento finale) in linea con lo stile e la poetica del grande esponente dell’espressionismo. Infatti, rinunciando al sonoro e affidandosi quindi alla puntualmente cruciale e suggestiva componente visiva (coadiuvata dalla splendida fotografia di Floyd Crosby che, premiata con un meritato Oscar, ne esalta le atmosfere di esotica sensualità), Murnau declina i temi a lui cari nel segno della classica dicotomia amore-morte per affrontare il tema dell’irrealizzabilità del desiderio in forma di splendido poema lirico su un doppio idillio infranto: perché in tutto ciò, gravata dall’oppressione di quella civiltà che finisce per guastarne la pacifica condizione, l’edenica oasi fuori dal tempo ormai appunto contaminata dalle umane convenzioni e contraddizioni diviene infatti vivido ed avvolgente luogo dell’anima, rispecchiando quella speranza di eternità che si rivela una chimera quando sul sogno romantico che la alimenta irrompe impietosa l’ineluttabile fatalità del destino. In tutto ciò, quello che purtroppo resta l’ultimo film di Murnau (tragicamente scomparso in seguito ad un incidente d’auto ad una settimana dall’anteprima del film) appare quindi come una sorta di mitico ed ispirato testamento artistico e spirituale, anche se alla sua uscita non ottenne l’attenzione che avrebbe meritato, rivelandosi infatti un insuccesso commerciale e venendo inoltre censurato negli USA per la presenza di scene di nudo parziale femminile.
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Summary
“Tabu: A Story of the South Seas”; di FRIEDRICH WILHELM MURNAU; con MATAHI, RERI, HITU, JEAN; drammatico; USA, 1931; B/N; durata: 85’; |
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