L’attrice Robin Wright (che interpreta una variante di se stessa), riceve da un grande Studio l’offerta di vendere la sua identità cinematografica: verrà scansionata e di lei verrà creato un campione, così che lo Studio possa utilizzare la sua immagine a piacimento in qualsiasi tipo di film di Hollywood, anche i più commerciali da lei in precedenza spesso rifiutati. In cambio, Robin riceverà una cospicua somma di denaro, ma soprattutto lo Studio prometterà di mantenere il suo alias digitale per sempre giovane in ogni film. Il contratto ha una validità di vent’anni. È a questo punto che Robin viene catapultata in un mondo animato dove si scoprono le sue tribolazioni successive alla firma e fino al momento in cui lo Studio decide di trasformarla in una formula chimica.
Basato sul romanzo Il Congresso di Futurologia di Stanislaw Lem (autore, tra gli altri, anche di Solaris, da cui fu tratto l’omonimo capolavoro di Tarkovskij), è il nuovo film dell’autore israeliano Ari Folman, che dopo l’acclamato Valzer con Bashir (presentato con successo a Cannes 2008 e vincitore del Golden Globe come miglior film straniero), torna con un’opera differente nel tema centrale ma coerente nel linguaggio, analogo non solo nell’uso dell’animazione come caratteristica chiave della personale cifra stilistica, ma anche nell’invasione del reale da parte dell’onirico come filo conduttore e/o fondamentale elemento narrativo/espressivo. Questa volta al binomio realtà/finzione si connettono due nuove componenti, ovvero gli effetti dell’esperienza filmica e la centrale problematica etico-umana di non irrisoria profondità: il primo in forma di racconto meta-cinematografico in cui la ben poco velata satira sull’industria hollywoodiana si evolve in un personale discorso sulle ripercussioni della distorsione percettiva, snodato attraverso l’incontro tra il mezzo filmico e gli effetti della chimica (entrambi capaci di reinventare o alterare la realtà); la seconda come parabola distopica sulle conseguenze di un’eventuale ed inquietante deriva della società, sia per quanto riguarda l’eccesso e il monopolio tecnocratico sia a livello di alienazione esistenziale e svalutazione dell’identità (tanto da arrivare alla spersonalizzazione dell’individuo e alla mercificazione di una sua copia scannerizzata). Nettamente diviso nelle due parti suddette (più una terza finale), il film si distingue per l’avvolgente, eccentrica e psichedelica interpretazione di una vita che supera i confini della realtà sconfinando nella proiezione mentale od onirica, anche se d’altra parte a questo proposito manca la potenza catartica di Valzer con Bashir: questa volta l’espediente formale dell’animazione risulta infatti meno fluido ed efficace a causa di un appesantimento centrale corrispondente ad un calo della tensione drammatica, imputabile soprattutto al sovraccarico di elementi, rimandi, citazioni e personaggi (tra le “comparse” riconoscibili ci sono, tra gli altri, Che Guevara e Ronald Reagan, Picasso e Frida Kahlo, John Wayne e Marilyn Monroe, Buddha e Gesù). Detto ciò, va riconosciuto che, seppur appunto un po’ svilito e quindi decisamente meno d’impatto rispetto all’opera precedente, il talento di Folman rimane comunque piuttosto evidente nel fascino allusivo ed espressivo della sua personale visione d’autore, il tutto sorretto da una capace direzione degli attori coadiuvata dall’interpretazione della trascinante protagonista Robin Wright (di grande intensità, specie nella rarefatta prima metà del film), ben supportata da un grande comprimario come Harvey Keitel. Presentato a Cannes 2013 come film d’apertura della Quinzaine des Réalisateurs.
The Congress | |
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Summary
id.; di Ari Folman; con Robin Wright, Harvey Keitel, Kodi Smit-McPhee, Danny Huston, Sami Gayle, Michael Stahl-David, Paul Giamatti, Sarah Shahi; fantascienza; Israele/ Francia/ Belgio/ Polonia/ Lussemburgo/ Germania, 2013; durata: 123’. |
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