Giacomo Leopardi è un bambino prodigio che cresce sotto lo sguardo implacabile del padre, in una casa che è una biblioteca. La sua mente spazia ma la casa è una prigione: legge di tutto, ma l’universo è fuori. In Europa il mondo cambia, scoppiano le rivoluzioni e Giacomo cerca disperatamente contatti con l’esterno. A ventiquattro anni, quando lascia finalmente Recanati, l’alta società italiana gli apre le porte ma il nostro ribelle non si adatta. A Firenze si coinvolge in un triangolo sentimentale con Antonio Ranieri, l’amico napoletano con cui convive da bohémien, e la bellissima Fanny. Si trasferisce infine a Napoli con Ranieri dove vive immerso nello spettacolo disperato e vitale della città plebea. Scoppia il colera: Giacomo e Ranieri compiono l’ultimo pezzo del lungo viaggio, verso una villa immersa nella campagna sotto il Vesuvio.
Prodotto da Carlo Degli Esposti e Nicola Serra per Palomar, e presentato con buon riscontro alla 71a mostra d’arte cinematografica di Venezia, è il settimo, ambiziosissimo lungometraggio di Mario Martone, che con coraggio affronta la sfida di portare sullo schermo l’insidioso corpus leopardiano nella sua nota vastità di materiali densi ed eterogenei, dibattuto ed iper-frequentato da generazioni di studiosi e di studenti. Diviso in tre principali blocchi narrativi (la giovinezza a Recanati con il desiderio di evasione, il soggiorno fiorentino con la conoscenza dell’amico Ranieri e dell’amata Fanny, e il periodo napoletano con la deformità fisica che lo condurrà alla morte precoce), è un film magari imperfetto ma decisamente ammirevole, di grande interesse e di notevole spessore; infatti, se da una parte, nonostante la linearità dell’impostazione, la narrazione fatica a trovare uno stabile baricentro, dall’altra ciò che davvero conta, più che il disegno della struttura, è piuttosto l’approccio sentito e personale con cui Martone affronta il corposo materiale: schivando le trappole del biopic ed evitando l’agiografia, l’autore e la co-sceneggiatrice Ippolita Di Majo non si limitano infatti a sacrificare il personaggio nella scolastica analisi dell’arcinota locuzione di “pessimismo cosmico”, optando piuttosto per una più ricca varietà di toni, alternando tormento e naturalezza, lucidità e fragilità, velata melanconia e persino sottile ironia; ne è uscito il ritratto non convenzionale, anche pedagogico ma comunque non didattico, di un Leopardi pressoché inedito, dalla cui figura, come in uno Zibaldone in immagini (attraverso un’attenta riproposizione di testi, lettere, eventi ed introspezioni) può sprigionarsi su schermo la forza dell’espressione non solo letteraria del suo animo ribelle, tormentato, fragile nel corpo ma vulcanico nel pensiero. Nella funzionale rievocazione di un contesto tra classicismo e romanticismo, commentato da una colonna sonora che non a caso passa con disinvoltura dalla classicità di Rossini all’anacronismo dell’elettronica, si rispecchia e si riversa infatti l’animo di un uomo che il dolore fisico e l’intima sofferenza proiettano avanti nel tempo, sconfinando in un moderno esistenzialismo che, sebbene sempre nel segno di quella ricerca d’infinito che già suggella la prima metà della pellicola (fino alla lettura della fondamentale lirica archetipo della poetica di Leopardi), pare votato anche ad esprimere la missione progressista del protagonista; a questo proposito, più che il segmento centrale in cui Martone, portando avanti la congiunzione tra cinema e teatralità che da sempre accompagna le sue opere, attua un punto di vista principalmente interlocutorio e frontale, da notare è soprattutto l’ultima parte, forse la più emblematica e profonda per come immerge lo spettatore nella dicotomia leopardiana tra ragione e natura, concretezza e smarrimento: nel raccontare ancora una volta la sua città natia, il regista vi guarda infatti con un approccio diverso eppure coerente non solo con la sua poetica, ma anche con quella di Leopardi, lasciandosi andare ad ispirati momenti di visionario virtuosismo ed esprimendo una turbata e insieme meravigliata confusione in cui, come nel bellissimo finale con la compulsiva ed intensa recita de “La Ginestra”, il mondo reale e quello interiore finiscono con il confondersi. In tutto questo, supportato da un funzionale cast di contorno, il protagonista Elio Germano si è calato nel ruolo del poeta con il cuore e con la testa, ottenendo un risultato davvero ammirevole nel rispettare la ricchezza interiore del personaggio, restituendone l’ardore e la dignità ed incarnandone la progressiva deformità fisica senza scadere nel grottesco o nel patetico.
Il Giovane Favoloso | |
Il Giovane Favoloso | |
Summary
id.; di Mario Martone; con Elio Germano, Michele Riondino, Massimo Popolizio, Anna Mouglalis, Valerio Binasco, Federica De Cola, Paolo Graziosi, Iaia Forte, Raffaella Giordano, Sandro Lombardi, Edoardo Natoli, Giovanni Ludeno, Isabella Ragonese; biografico; Italia, 2014; durata: 137'. |
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