Durante la prima guerra mondiale, due aviatori francesi, il tenente Marechal (Jean Gabin) e il nobile capitano de Boieldieu (Pierre Fresnay), sono abbattuti dall’ufficiale tedesco von Rauffenstein (Erich von Stroheim); inviati in un campo di detenzione, insieme ai compagni e al banchiere ebreo Rosenthal (Marcel Dalio) tentano di organizzare un’evasione di massa, ma tale proposito fallisce quando vengono trasferiti in un inespugnabile castello fortificato, evento che li spingerà a progettare un nuovo e differente piano di fuga.
Dopo una ventina di lungometraggi, Jean Renoir ottiene finalmente un trasversale successo di critica e pubblico con questo straordinario film da lui anche co-sceneggiato (insieme a Charles Spaak) traendo ispirazione dalla sua esperienza come pilota d’aviazione e dalle successive conversazioni con il maresciallo Pinsard (che nel 1916, durante una missione, gli salvò la vita). Autentica vetta del cinema prebellico, è anche (insieme al successivo La Regola del Gioco) uno dei più alti risultati del regista francese, il quale, nel raccontare la guerra senza mostrare trincee, esplosioni o battaglie, la sublima in una rappresentazione fondata innanzitutto sulle dinamiche tra personaggi, articolate in base a quelle differenze di classe che (più radicate rispetto a quelle tra nazioni) possono mutare equilibri e determinare unioni o divisioni; infatti, nell’illustrare come tali divari sociali finiscano per annullarsi in un contesto di collettivo conflitto nel quale, paradossalmente, tutti gli uomini si scoprono uguali, l’autore invoca l’abbattimento di qualsiasi frontiera così da poter (come scrisse François Truffaut) “riconciliare gli uomini che tuttavia continueranno a restare divisi per nascita”. Non a caso, al capitano francese de Boëldieu e all’ufficiale tedesco von Rauffenstein, entrati in sintonia a causa delle simili origini nobili, si contrappongono il proletario Maréchal e il borghese ebreo Rosenthal, accomunati invece da esperienze e ideali affini; da una parte, questi ultimi incarnano una sincera umanità che, pur superando appunto divari sociali o culturali (come dimostrano, rispettivamente, il legame con una vedova tedesca e la fedeltà alle radici che prescinde la condizione agiata), implica tuttavia al contempo un profondo disincanto alimentato dalla presa di coscienza non solo di quanto effimere appaiano le pur nobili intenzioni del singolo alle prese con eventi di tale portata, ma anche di come la convinzione che una guerra possa porre fine a tutte le altri si riveli in realtà soltanto un’illusione, veicolando e rimarcando così la tesi centrale sull’insensatezza del conflitto; dall’altra, i due aristocratici si rivelano invece figure di una tragicità complementare che fa capo al conflitto tra un reciproco rispetto riconducibile alla condivisione di un senso cavalleresco del valore (che, al contrario, li porta a considerare la guerra una soluzione) e la divergente elaborazione della pur comune consapevolezza che tale visione del mondo (insieme alla loro condizione privilegiata) è ormai destinata a diventare obsoleta: infatti, mentre il primo accetta infine tale inevitabile declino, trovando tuttavia conforto proprio in quella stessa idea di onore che lo spinge a compiere un estremo quanto eroico sacrificio, il secondo tende invece a respingerlo, restando fino in fondo fedele ad un servizio che vede come un dovere ma condannandosi così ad un futuro di nostalgia senza più scopo. In tutto ciò, coadiuvato dall’eccellente gruppo di attori (tra i quali spicca proprio il monumentale Erich von Stroheim, già nume tutelare del regista), nel continuare quindi ad esplorare le dinamiche della società di transizione tra Ottocento e Novecento, Renoir esprime con grande efficacia il suo antimilitarismo pragmatico, libero da retorica e concessioni al sentimentalismo eppure sentito e commovente, attraverso una messinscena realistica eppure non priva di rimandi a quella rappresentazione teatrale a lui tanto cara: infatti, se emblematica in tal senso è la splendida sequenza da in cui i prigionieri travestiti da donna intonano “La Marsigliese” (che da canto patriottico diventa inno di libertà), ciò è evidente anche nell’impianto narrativo che, nel suo sviluppo in tre atti, progressivamente si stilizza e assottiglia, restringendo gli spazi e riducendo i personaggi (dal dramma della massa nel campo di prigionia al lirismo del trio di figure chiave nella fortezza). Così, nel confluire con precisa quanto genuina verità in un accorato messaggio pacifista, tale florida vastità di toni e contenuti assurge a personalissima cifra stilistica e, insieme, poetica di un sempreverde e indimenticabile capolavoro di umanesimo, che, ricco di momenti da ricordare (tra i quali, oltre a quello succitata del vaudeville, spicca anche lo splendido finale sulla neve), si dimostra ancora capace di incantare gli spettatori e influenzare nuove generazioni di autori. Presentato alla quinta edizione del festival di Venezia, dove si aggiudicò un riconoscimento per il “miglior complesso artistico” (istituito per l’occasione dalla giuria che, sottoposta alle pressioni delle autorità, non poté conferirgli un riconoscimento più importante), il film fu tuttavia sdoganato in Italia soltanto dieci anni più tardi in versione scorciata; proibito anche in Germania e in patria (dove fu ridistribuito in versione integrale nel 1958, quando Renoir e Spaak ne riscattarono i diritti), negli Stati Uniti fu invece un grande successo, tanto da diventare il primo film non anglofono ad ottenere la candidatura all’Oscar per miglior film.
La Grande Illusione | |
La Grande Illusione | |
Summary
“La Grande Illusion”; di JEAN RENOIR; con JEAN GABIN, ERICH VON STROHEIM, PIERRE FRESNAY, MARCEL DALIO, DITA PARLO; drammatico; Francia, 1937; B/N; durata: 114’; |
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