Quando il Presidente degli Stati Uniti John F. Kennedy viene assassinato, la First Lady Jacqueline Kennedy (Natalie Portman) deve tirar fuori tutto il suo coraggio per superare il dolore e lo choc e ritrovare la fede, consolare i figli e forgiare l’eredità storica del marito.
Dopo 6 ottimi film in patria, al suo primo lavoro in lingua inglese (girato però in gran parte in Francia, con gli interni della Casa Bianca egregiamente ricostruiti negli studi di Luc Besson dallo scenografo Jean Rabasse), l’acclamato regista cileno Pablo Larraín continua ad indagare sul rapporto tra potere e comunicazione riflettendo sull’enigmatica figura della first lady più iconica della storia statunitense. Per delinearne un ritratto fuori dagli schemi abbracciandone con partecipe interesse l’intrigante mistero (in altalena tra fascino, fragilità, determinazione ed apparenza), questa volta l’autore (capace di reinventarsi nuovamente pur restando sempre fedele a se stesso) ammorbidisce i toni e contiene i virtuosismi senza però perdere in rigore della messa in scena, solidità narrativa e pregnanza di contenuti. Così, assecondando la sceneggiatura di Noah Oppenheim (premiata al festival di Venezia), l’autore punta su una struttura intimista ma composita in cui peraltro riesce mirabilmente ad evitare gli stilemi e le trappole del biopic (specialmente la ricostruzione didattica ed agiografica), concentrando la narrazione in un arco temporale ristretto (ovvero i tre giorni successivi alla morte di Kennedy) a cui fa da cornice un’intervista che Jackie rilasciò al giornalista Theodore H. White (interpretato da Billy Crudup); e già da tale confronto traspare il suddetto tema del potere della manipolazione (da sempre ricorrente nel cinema di Larraín) di cui Jackie si rivela infatti grande fautrice, mostrandosi ad esempio prima fragile e sincera per poi imporre un attimo dopo la narrazione ufficiale, mettendo in chiaro che ciò non dovrà essere pubblicato; emblematico in questo senso è anche il passaggio in cui parla dei tradimenti del marito dichiarando che “a volte andava nel deserto per farsi tentare dal diavolo, ma poi tornava dalla sua famiglia”, salvo poi aggiungere un lapidario “E io non fumo” proprio mentre tiene l’ennesima sigaretta tra le dita; un momento in cui la protagonista pare forse voler far trasparire quella dura verità perennemente celata dietro ad una cosciente ipocrisia che la donna porta avanti non soltanto per avvedutezza diplomatica: infatti, se ciò è certamente parte integrante di un’azzeccata strategia comunicativa (illustrata anche dai flashback in cui, attraverso una delle varie sconnessioni temporali, assistiamo alla realizzazione di uno speciale TV in cui per la prima volta la first lady apre al pubblico le porte della Casa Bianca), al tempo stesso, come confessa al sacerdote suo confidente (un grande John Hurt nella sua ultima apparizione prima della scomparsa), Jackie continua a portare avanti tale atteggiamento anche per se stessa; perché il vero dramma di Jackie non risiede soltanto nel lutto, bensì proprio nel conflitto tra il bisogno di esprimere il dolore e il dover alimentare quella consapevole dissimulazione a cui l’ormai ex first lady sente di doversi a sua volta aggrappare per affrontare un momento di profonda crisi esistenziale in cui alla disperazione per la morte del marito si accompagna un frastornante smarrimento (evidente mentre si aggira nei vuoti ambienti di una dimora che ora capisce non esserle mai appartenuta), esacerbato anche da un’improvvisa solitudine: infatti, nel cercare di far fronte alle divergenze con i familiari del marito, Jackie si accorge che anche la vicinanza con il cognato Bob (un funzionale Peter Sarsgaard) sembra risentire della mancanza di un legame di sangue, mentre perfino la preziosa amicizia con la fedele segretaria Nancy (un’ottima Greta Gerwig) pare inaspettatamente inibita da un’imprevista incertezza delle rispettive posizioni sociali; un’angoscia sofferta e lacerante ma quindi impossibile da condividere (nonché ben commentata dalla notevole colonna musicale di Mica Levi, in cui toni bassi e stranianti si confondono con melodie commemorative), che però Jackie evita di esibire, limitandosi ad imprimerla in un riflesso mentre, guardandosi allo specchio, si asciuga il volto dalle lacrime e dal sangue poco dopo l’assassinio del marito: infatti, invece di palesare tale inquietudine, la donna decide di imporsi non solo con il nuovo presidente Johnson e la moglie Bird (che invece vorrebbero si facesse subito da parte), ma anche e soprattutto con coloro che antepongono la sicurezza ai suoi suoi ambiziosi progetti per l’imminente funerale, che invece lei vorrebbe infatti organizzare ispirandosi alle solenni esequie di Lincoln, non a caso anch’egli assassinato e rimasto nell’immaginario. Perché se a seguito di tale clamoroso avvenimento (che verrà poi infatti definito come il momento in cui l’America fu privata della sua innocenza) il mistero di Kennedy assume un valore e un interesse ancor più significativi, lo stesso vale anche per Jackie, la quale, per non sparire completamente smarrendosi tra la perdita e la Storia, continua quindi ad alimentare quell’idealizzazione che lei stessa aveva contribuito a creare, adottando peraltro un simile approccio anche su più fronti (si veda ad esempio il passaggio in cui, per spiegare l’accaduto ai propri bambini, racconta che il loro padre è andato a far compagnia al figlioletto morto anni prima); una mitizzazione che guarda e si rifà alla leggenda di Camelot, appellativo non a caso poi esteso alla presidenza Kennedy, percepita come incarnazione di un regno lontano di gloria e ideali come la fortezza di Re Artù che fu peraltro ispirazione per un celebre musical il cui tema portante (notoriamente molto amato dal presidente) chiude il film con un romantico e nostalgico ballo che potrebbe durare per sempre, trascinante benché illusorio proprio come lo stralcio di un racconto epico. E in effetti, come afferma l’ormai ex first lady, “la gente ama le favole”, elaborando tale pensiero sostenendo poi, con nostalgica tristezza, che infatti “i personaggi di cui leggiamo finiscono per diventare più reali delle persone che ci stanno accanto”. Fasciata negli splendidi costumi di Madeline Fontaine, le dà l’acqua della vita una eccellente Natalie Portman candidata all’Oscar, la quale, nell’unire mirabilmente tecnica recitativa, attenzione psicologica e calibrato mimetismo (davvero notevole il suo lavoro sulla voce e sul portamento), riesce a rendere proprio quell’impenetrabile artificio in cui risiedono non solo il cuore e l’anima del complesso personaggio, ma anche la chiave di lettura dell’opera.
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Summary
id.; di Pablo Larraín; con Natalie Portman, Peter Sarsgaard, Greta Gerwig, Billy Crudup, John Hurt, Richard E. Grant, John Carroll Lynch, Beth Grant, Max Casella, Caspar Phillipson, Sunnie Pelant, Corey Johnson; USA/ Cile/ Francia, 2016; durata: 95'. |
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