A trent’anni dagli eventi narrati in Blade Runner, dopo una serie di rivolte i replicanti prodotti dalla Tyrell sono stati messi al bando. Nel frattempo, un grande blackout ha distrutto ogni dato digitale del pianeta e i cambiamenti climatici hanno dato il via a una stagione di carestie, cui l’umanità è sopravvissuta solo grazie alle colture sintetiche di una multinazionale con a capo il misterioso Neander Wallace (Jared Leto), il quale, dopo aver acquisito le tecnologie della Tyrell, ha sviluppato una nuova serie di replicanti completamente ubbidienti all’uomo e dalla longevità indefinita. Così nel 2049 a Los Angeles l’ordine sembra quindi ristabilito, almeno fino a quando l’agente K (Ryan Gosling), incaricato di ritirare vecchi replicanti in clandestinità, scopre un segreto sepolto da tempo che potrebbe far precipitare nel caos quello che è rimasto della società. La scoperta spinge K a condurre un’indagine più approfondita, arrivando ad incrociare la sua strada con quella di Rick Deckard (Harrison Ford), da tempo svanito nel nulla senza lasciare traccia.
Per lanciarsi nell’audace quanto rischiosa scommessa di realizzare, a trentacinque anni di distanza, l’attesissimo sequel di un cult acclamato ed amatissimo come Blade Runner, il canadese Denis Villeneuve, non a caso spesso impegnato a cercare un equilibrio tra blockbuster e cinema d’autore (vedere i precedenti Prisoners, Sicario e Arrival), pare tentare in questo caso una sintesi anche tra tale personale visione e la cifra espressiva dell’originale (di cui si è dichiarato da tempo grande ammiratore). Infatti, nel raccogliere la difficile eredità di Ridley Scott (che qui figura come produttore esecutivo) rispettandone la potenza iconica ma restando al contempo in linea con l’itinerario del nuovo regista, quest’ultimo e gli sceneggiatori Michael Green e Hampton Fancher (già co-autore del prototipo) paiono attingere piuttosto in maggior misura dalla prosa di Philip K. Dick, autore del romanzo all’origine di tutto a cui infatti questo seguito si riallaccia per recuperarne innanzitutto le implicazioni metafisico-nichiliste: con un’ottica a suo modo in controtendenza con i modi e la velocità hollywoodiani (anche nel limitato ricorso al digitale), Villeneuve mette infatti in scena il proseguo della storia attenuando la componente noir inglobandola per virtù di stile, adottando piuttosto un approccio compassato dal passo ipnotico e quasi contemplativo (probabilmente influenzato da Tarkovskij), per portare appunto in primo piano l’aspetto introspettivo ed esistenziale della vicenda. Così, pur tenendo presente l’estetica vintage-avveniristica del prototipo, la nuova trama è quindi calata in un’ambientazione similmente cupa ma al tempo stesso allusiva della realtà attuale per aumentare la presa allarmistica conformandone il concept e le dinamiche al nuovo presente per fare emergere messaggi e riflessioni su devastazioni climatiche, multinazionali e, soprattutto, sull’attuale condizione umana: perché nel contesto aggiornato non basta più domandarsi semplicemente di essere uomini o replicanti, e la megalopoli angosciante in cui la soggettività degli individui è ancora più incerta diviene ora scenario di una rivolta che da politica diventa interiore; proprio questo emerge infatti dalla centrale ricerca d’identità del protagonista K (nome forse non casuale), privo di anima, passato o memoria eppure innamorato di un ologramma e ossessionato da una mancanza inesistente che nel tramutarsi in consapevolezza di un desiderio sconosciuto può essere rivoluzionaria quando tale esigenza di contrastare una realtà solo apparente viene riconosciuta e trasmessa. Non a caso è un incontro tra generazioni (doloroso ma aperto al futuro) a chiudere un film che peraltro riflette a suo modo tale passaggio di testimone, forse non risolto del tutto (anche a causa di qualche intoppo di sceneggiatura) ma comunque solido e accorto, consapevole eppure non succube dell’influenza del prototipo e al tempo stesso personale e sofisticato nonché davvero ammirevole sul piano visivo-sonoro, coadiuvato da una squadra di tecnici di prim’ordine: a questo proposito, oltre alle avvolgenti scenografie di Dennis Gassner (con arredamenti dell’italiana Alessandra Querzola) e al funzionale montaggio del fidato Joe Walker, da citare sono inoltre le musiche elettroniche di Benjamin Wallfisch e Hans Zimmer (con dosati e ben integrati echi del tema originale di Vangelis) e soprattutto la straordinaria fotografia del grande Roger Deakins (in parte ispirata alle immagini della tempesta di sabbia che nel 2009 colpì l’entroterra australiano), non a caso premiata con l’Oscar insieme agli effetti visivi. Tra gli interpreti, se la consueta presenza scenica di Gosling non sopperisce ad una mimica qui troppo impassibile, i sermoni del bieco e monacale fabbricante di replicanti cieco non aiutano un Jared Leto pur più misurato del solito a rendere incisivo un personaggio (per ora) poco sviluppato, mentre più gradito è invece il ritorno di Ford, che nel riprendere il ruolo di Deckard si dimostra invece assai coinvolto e se la cava degnamente pur giocando in casa per un tempo limitato.
Blade Runner 2049 | |
Blade Runner 2049 | |
Summary
id.; di Denis Villeneuve; con Ryan Gosling, Harrison Ford, Jared Leto, Ana de Armas, Sylvia Hoeks, Robin Wright, Dave Bautista, Mackenzie Davis, Barkhad Abdi, Lennie James, David Dastmalchian, Edward James Olmos; fantascienza; USA, 2017; durata: 163'. |
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