Harry a Pezzi

Harry Block (Woody Allen), scrittore ebreo di New York in crisi creativa, cerca di mettere ordine nella sua vita riversando le sue nevrosi e le sue esperienze nei suoi romanzi.

Scomposto, frantumato e senza una vera trama perchè, appunto, “decostruito” (come suggerisce il titolo originale), il 28° film di Woody Allen può forse annoverarsi tra le più spiccatamente personali opere della fase più recente del suo itinerario. La vicenda ruota attorino ad un uomo che tutto è fuorché canonicamente “per bene”: nevrotico, erotomane, disilluso, perennemente in crisi sul piano professionale come anche su quello sentimentale, Harry si annovera tra i personaggi meno positivi (ma forse più sfaccettati) che Allen si sia mai cucito addosso, una sorta di omologo artistico in negativo che si compone e si completa attraverso una struttura narrativa “a blocchi” fatta di continui salti spazio-temporali, parentesi surreali, incursioni nel dramma, impennate di grottesco e ispirati rimandi felliniani (vedere l’impagabile sequenza all’Inferno), fino all’eccezionale finale che chiude il cerchio guardando appunto ad “8 1/2” ma anche a Pirandello. Popolato da una ventina di personaggi irresistibili (tutti meravigliosamente interpretati da attori bravi o bravissimi) e ricco di tematiche da sempre ricorrenti nella filmografia dell’autore (la crisi esistenziale, i rapporti di coppia, il sesso, la morte, la religione, i vizi e le contraddizioni della società) è un film da non perdere non solo appunto per l’audace struttura drammaturgica, ma anche per la sapiente cifra stilistica audace ma coerente, contrappuntata da originali invenzioni di regia (come il segmento con Robin Williams letteralmente “fuori fuoco”) e dall’usuale brillantezza dei dialoghi e delle situazioni. A livello visivo, cruciale è il contributo del grande direttore della fotografia Carlo Di Palma. Nomination all’Oscar per la sceneggiatura.