Inizi del ‘900. Ex minatore nel deserto californiano in cerca di fortuna, il mite John McTeague (Gibson Gowland) si trasferisce a San Francisco, dove riesce ad aprire uno studio dentistico e in seguito sposa la sua cliente Trina (ZaSu Pitts), cugina dell’amico Marcus (Jean Hersholt), a sua volta innamorato di lei. Ma ben presto i loro legami saranno messi a dura prova dalla vincita alla lotteria di una cospicua somma di denaro che infatti scatena cupidigia e meschinità, spingendoli a compiere gesti estremi e trascinandoli verso un atroce destino.
Quinto lavoro dietro la macchina da presa (e il primo di ambientazione americana) dell’attore e regista di origine austriaca Erich von Stroheim, è uno dei capolavori “mutilati” del muto, passato alla storia anche come uno dei maggiori e più celebri esempi di “film maledetto” anche per la lavorazione di leggendaria difficoltà: sei lunghi mesi di riprese (quasi tutti in esterni e in condizioni atmosferiche assai difficili) per ben 42 rulli di girato, un budget per l’epoca astronomico (quasi 470.000 dollari), incomprensioni con il cast e la troupe e soprattutto diatribe con la produzione, specialmente durante l’incredibilmente travagliata post-produzione; infatti, il risultato fu una mastodontica prima versione di 7 ore che però l’autore fu costretto a scorciare drasticamente quando la Metro-Goldwyn-Mayer (dopo aver acquisito la Goldwyn che aveva sostenuto il progetto) gli impose di adattare il tutto ad una durata più accettabile per il grande pubblico; così, von Stroheim ottenne con estrema fatica una nuova edizione da 240 minuti (concepita per essere proiettata in due parti), che quindi passò nella mani dell’amico e aiuto regista Rex Ingram, il quale eseguì a sua volta nuovi tagli riducendola ulteriormente a 3 ore; giudicando però ancora insufficienti tali già drastici nuovi montaggi, il produttore Irving Thalberg requisì allora il materiale e (con il contributo dell’influente sceneggiatrice June Mathis) ne ottenne una nuova versione da 100 minuti da poter finalmente distribuire, che però non riuscì comunque a salvarsi dal clamoroso insuccesso e venne ripudiata dall’autore: quest’ultimo liquidò infatti l’operazione con un lapidario e celebre commento, sostenendo di aver realizzato fatto un unico film importante nella sua vita, che però nessuno aveva avuto occasione di vedere, in quanto ne furono proiettati soltanto i poveri resti mutilati. In effetti, anche così assottigliato e smembrato, “Rapacità” rimane forse la summa della sua poetica, in cui il regista esaspera appunto la sua megalomane ricerca di una totale verità (evidente nella maniacale accuratezza della ricostruzione scenica, con tanto di riprese nei luoghi originari). Infatti, nell’ambizione di portare su schermo con estrema fedeltà il romanzo “McTeague: A Story of San Francisco” di Frank Norris, von Stroheim ne accentua il marcato naturalismo attraverso il quale trasfigura la realtà per virtù di stile in una messa in scena che, pur mantenendosi profondamente verista (guardando a Dickens, Maupassant e Zola, non a caso nume tutelare dello scrittore e della sua corrente), appare quindi al tempo stesso anche fortemente visionaria. Perché, in controtendenza con i canoni della narrazione americana dell’epoca, il regista si affida ad un largo uso della profondità di campo e del primo piano per esplorarne le potenzialità espressive, rielaborando al contempo le norme del montaggio analitico per costruire così inquadrature di polifonica carica allusiva e metaforica; a questo proposito, oltre ai frequenti parallelismi tra uomini e animali e alla memorabile sequenza conclusiva nel deserto della Death Valley, esemplare è anche ad esempio la scena delle nozze, durante la quale si assiste al passaggio di un corteo funebre come oscuro presagio di incombente sciagura: non a caso, questa tragica parabola di un’umanità consumata da una rapace combinazione di corruzione, avarizia e avidità si sviluppa proprio nel segno di una progressiva fatalità sociale ed esistenziale che, estesa anche a quella cupa ed audace componente erotica tipica dell’autore (associato addirittura a De Sade per la sua perenne attenzione alle implicazioni etiche della trasgressione), conduce e condanna i personaggi ad un’inevitabile e rovinosa autodistruzione. Nel 1999, la società cinematografica Turner Entertainment (detentrice dei diritti) ne realizzò un’edizione restaurata di circa quattro ore integrata con foto di scene perdute, didascalie aggiuntive, una nuova colonna sonora (a cura di Robert Israel) e alcuni dettagli a colori (nelle cruciali scene dell’oro), cercando per quanto possibile di ricostruire il film nel rispetto degli intenti originari del regista.
Greed - Rapacità | |
Greed - Rapacità | |
Summary
“Greed”; di ERICH VON STROHEIM; con GIBSON GOWLAND, JEAN HERSHOLT, ZASU PITTS, DALE FULLER, TEMPE PIGOTT, CHESTER CONKLIN; drammatico; USA, 1924; B/N; durata: 135’. |
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