È morto il 22 settembre all’età di 94 anni Gian Luigi Rondi, decano dei critici cinematografici italiani: con il suo elegante riserbo e con l’immancabile sciarpa bianca felliniana ha attraversato da protagonista la storia del cinema.
Nato in Valtellina nel 1921, si era trasferito a Roma giovanissimo per scrivere di cinema sul quotidiano Il Tempo, attività che ha continuato a svolgere fino alla fine. Fratello di Brunello, regista e sceneggiatore (anche con Fellini per La Dolce Vita), a sua volta diresse inoltre diversi documentari sul cinema e collaborò con autori come Pabst, Mankiewicz e René Clair. Ma nella sua lunghissima carriera, costellata di una quantità sterminata di titoli e onorificenze (tra cui spiccano quelle di Cavaliere di Gran Croce, Grande Ufficiale della Repubblica Italiana e Cavaliere della Legion d’Onore in Francia), Rondi fu innanzitutto un grande operatore culturale: in parallelo all’attività di critico e saggista, oltre che docente universitario di cinema fu anche membro della giuria nei più importanti festival di cinema come Cannes, Berlino, Rio de Janeiro, San Sebastian e naturalmente Venezia, di cui divenne inoltre importante direttore; presidente della Biennale, del festival di Locarno e della Fondazione Cinema per Roma (sovrintendendo inoltre al Festival Internazionale del Film diretto da Piera Detassis), fu anche fondatore del “Festival delle Nazioni” di Taormina, direttore degli Incontri Internazionali del cinema di Sorrento e ovviamente presidente (a vita) dell’Accademia del Cinema Italiano e dell’Ente David di Donatello.
Colto ed autorevole ma anche discusso e controverso, nel bene e nel male Rondi rappresentò comunque un punto di riferimento nel dibattito culturale italiano non solo circoscritto al cinema. Prima partigiano, poi democristiano ed infine iscritto al PD ma sempre fedele alla sua formazione cattolica, pur non apprezzando essere definito uomo di destra entrò spesso in collisione con gli intellettuali della Sinistra italiana; ad esempio, quando nel 1970 il ministro Matteotti nominò Rondi direttore della Biennale di Venezia, registi ed intellettuali insorsero contro tale manovra politica a favore della DC e delle sue leggi contro l’immoralità (raccogliendo firme per porre fine a quello che definirono come “statuto fascista” della Mostra), mentre l’Espresso gli dedicò un articolo intitolato “Il doge nero”; quando il critico si disse assai amareggiato da tale definizione, Zurlini lo invitò a ricordare il suo passato di partigiano, ma lui rispose che non era abituato a usare la Resistenza come ombrello per ripararsi dalle bombe. Tuttavia non gli dispiacevano invece altri appellativi come “il Richelieu del cinema italiano” o “Il Divo”, quest’ultimo affibbiatogli dagli addetti ai lavori che piuttosto legittimamente lo accostavano (per approccio e per amicizia) a Giulio Andreotti: quest’ultimo fu affiancato da Rondi ai tempi in cui, da sottosegretario, fu autore di una legge sulla censura che, riprendendo quella del Regime, condannava anche quei film che non mettevano in buona luce la nostra cultura: proprio al politico fu infatti attribuita un’opinione lapidaria su Ladri di Biciclette di Vittorio De Sica (“i panni sporchi si lavano in famiglia”), anche se il critico sosteneva invece che a pronunciare la frase fosse stato un ambasciatore.
Già nel 1968, quando sotto la direzione del socialista Chiarini entrò nella Commissione esperti, le minacce del terrorismo eversivo che in quel periodo convulso coinvolgevano le istituzioni lo costrinsero a munirsi di una scorta della Digos, mentre la Mostra fu bloccata per tre giorni per contestazioni e polemiche a cui presero parte Zavattini, Bertolucci e Pier Paolo Pasolini. Fu proprio quest’ultimo a dedicargli quel celebre e caustico epigramma in cui gli si rivolgeva scrivendo “Sei così ipocrita che quando la tua ipocrisia ti avrà ucciso/ sarai all’Inferno e ti crederai in Paradiso”; tuttavia, quando in seguito alla morte di Angiolillo (fino ad allora direttore de Il Tempo) Rondi si ritrovò liberato da quegli obblighi ideologici che per sua stessa ammissione avevano talvolta influenzato alcune prese di posizione, i due iniziarono a frequentarsi. Eppure in alcune occasioni fu attaccato proprio anche dalla stessa DC, che ad esempio arrivò addirittura a chiederne il licenziamento quando il critico, assecondando la commissione del festival di Venezia, decise di ammettere alla Mostra I Diavoli di Ken Russell, film scabroso, sequestrato e poi censurato, che diede scandalo; in tale contingenza fu addirittura il futuro papa Luciani a tutelare una scelta che peraltro non rispecchiava quell’eventuale appartenenza ad una fazione politica di destra in cui tuttavia lui stesso aveva dichiarato di non identificarsi sebbene alcune eclatanti decisioni potessero continuare a far pensare il contrario: tra queste, oltre all’accusa di filo-bolscevismo mossa al film Miracolo a Milano di De Sica, celebri rimangono ad esempio anche le pubbliche lettere contro l’immoralità dei film di Vadim o Ophuls (da lui stesso premiato a Venezia), mentre leggendaria fu la scelta di escludere da Venezia il capolavoro Velluto Blu di David Lynch per la presenza di una scena di nudo con protagonista Isabella Rossellini; eppure anche in quest’ultima occasione Rondi negò il motivo ideologico sostenendo che tale scelta rappresentava invece un gesto di rispetto nei confronti di Roberto Rossellini e Ingrid Bergman, genitori di Isabella ed entrambi suoi cari amici come lo erano numerose personalità del cinema italiano ed internazionale: oltre ad interpreti come la Magnani e la Lollobrigida (le quali spesso si rivolgevano a lui per consigli e suggerimenti), tra questi spiccavano certamente i fratelli Taviani (con i quali condivideva un particolare rapporto di stima) ma anche il comunista Lizzani, a cui il critico assegnò il David per il documentario La Muraglia Cinese affermando infatti che “l’amicizia veniva prima della tessera”.
Perché in effetti, quando aveva un incarico istituzionale Rondi lo gestiva applicando un inclusivo stile diplomatico simile a quello che l’amico Andreotti applicava alla politica, riuscendo anche per questo a mantenere con il cinema italiano (da lui sempre privilegiato) un rapporto molto intenso; invero, se da una parte erano risapute le sue intransigenti posizioni in fatto di morale, dall’altra la sua collocazione in tale dimensione ideologica fu per la verità contraddetta in diverse circostanze, come dimostrano i patrocini a collaboratori notoriamente di opposto schieramento politico (come il succitato Lizzani) ma anche i ravvedimenti e i risarcimenti che riservò nel tempo ad autori spesso anche duramente criticati (come Antonioni, al quale sembrava preferire la “chiarezza” di Germi) o con i quali aveva notoriamente avuto dissidi o dissapori (poi per la maggior parte ricomposti): ad esempio, dopo essere stato attaccato da Bertolucci per la gestione di alcune mostre di Venezia, una decina d’anni più tardi Rondi lo ripagò nominandolo presidente della giuria; o ancora, dopo aver stroncato (su imposizione di Angiolillo) l’acclamato Le Mani sulla Città di Francesco Rosi (che inizialmente accolse infatti con con un definitivo “No, No, No!”), in seguito fece ammenda rettificando il giudizio (smorzandolo con un “Grazie, De Sica”) e risarcì il regista assegnando il David al suo Cadaveri Eccellenti. Proprio a questo proposito, quando gli fu chiesto di spiegare le talvolta discutibili assegnazioni dei David (nessun premio per 8 1/2 di Fellini, soltanto un riconoscimento per Antonioni, tardivi quelli a Bellocchio e al già citato Bertolucci) Rondi sostenne che il riconoscimento era nato per consacrare un talento piuttosto che scoprirlo, ma successivamente furono introdotti i premi alla carriera proprio per onorare chi era stato dimenticato dalle giurie. E proprio l’Accademia del Cinema Italiano (ovvero l’organismo che si occupa dell’organizzazione dei David) nel giorno della sua scomparsa gli ha dedicato queste parole: “Questa notte si è spento nel suo letto, serenamente, il nostro presidente. Ci aveva fatto credere di essere immortale”.