Quando alcuni misteriosi oggetti provenienti dallo spazio arrivano sulla Terra, per le susseguenti investigazioni viene formata una squadra di élite capitanata dall’esperta linguista Louise Banks (Amy Adams). Mentre l’umanità vacilla sull’orlo di una Guerra globale, il gruppo affronta una corsa contro il tempo in cerca di risposte. Per trovarle, Louise farà una scelta che potrebbe mettere a repentaglio la sua esistenza e forse anche quella dell’intera umanità.
Tratto dal racconto “Story of Your Life” di Ted Chiang, sapientemente adattato per lo schermo da Eric Heisserer, l’ottavo film (il quarto in lingua inglese) dell’eclettico ed acclamato regista canadese Denis Villeneuve si inserisce nel filone della fantascienza concettuale distanziandosi dalla ridondanza e dagli stilemi del blockbuster ad alto budget a cui preferisce invece un approccio più intimista anche nell’esposizione di pregnanti questioni antropologiche ed esistenziali. Labirintico anche se non pretestuoso ed intenso senza essere stucchevole, nel suo approccio sottile ma potente pare infatti puntare piuttosto ad un’ambiziosa combinazione tra la poetica spettacolarità di Spielberg e la mistica elegia di Malick (a cui ammicca anche sul piano visivo, coadiuvato dalla suggestiva fotografia di Bradford Young), il tutto in un impianto quasi minimalista eppure ricchissimo di rime interne e ricercati riferimenti fin dall’efficace apparato scenografico di Patrice Vermette (le astronavi ovoidali che evocano Magritte e James Turrell ma anche il mito della caverna di Platone, con tanto di ombre da interpretare). Fondato sulla cosiddetta teoria Sapir-Whorf (anche conosciuta come “ipotesi della relatività linguistica”), secondo la quale il modo di pensare e vedere la realtà sono influenzati dalla lingua che si parla, il film pone l’accento proprio sull’importanza di un linguaggio che può essere arma o strumento, generando incomprensioni o unificazione e determinando il nostro modo di vedere gli eventi; a questo proposito, pur condividendone alcuni elementi anche sul piano contenutistico, Arrival si distingue da alcuni celebri predecessori di fantascienza esistenzialista (dal mitico Incontri Ravvicinati del Terzo Tipo al più recente Interstellar di Nolan) specialmente per come, facendo leva anche sul peso della memoria, esprime la sua personale riflessione sulla concezione del tempo, qui reso come una dimensione non lineare anche a livello drammaturgico: scandito da un enigmatico gioco interno di scambi e sovrapposizioni tra flashback e flashforward (il tutto commentato dalle musiche di Jóhann Jóhannsson e sostenuto dal cruciale montaggio di Joe Walker), tale spunto tematico si rispecchia nella struttura circolare ad uroboro (antico e multiculturale simbolo della ciclicità delle cose) richiamata dai criptici ideogrammi ma anche da un centrale nome palindromo come la narrazione (che rifacendosi al titolo del testo originale si apre e si chiude come la storia di una vita che già conosciamo eppure contemporaneamente ancora da scoprire). In tutto ciò, nel suo approccio profondamente umanista il film intavola la possibilità di superare le incomprensioni geopolitiche e la paura dello straniero in nome di una collaborazione propedeutica alla messa a punto di un “gioco a non somma zero” in cui l’incontro tra scienza e comunicazione possa favorire un’unificazione che fa capo all’accoglienza e viceversa (risvolto non indifferente, specialmente in tempi di demagogici isolazionismi alla Trump); eppure, tale accettazione del diverso coincide però con quella di noi stessi e quindi del nostro destino, rendendo appunto tale scenario decisamente meno utopico anche se al tempo stesso non del tutto fatalista: infatti, se la presa di coscienza dell’ineluttabile non rappresenta una protezione dai dolori dell’esistenza, d’altra parte non esime comunque dalla libertà di scelta; tale sviluppo (che peraltro permette di evitare le trappole della più banale retorica buonista hollywoodiana) conduce così ad una non trascurabile riflessione sul libero arbitrio, ponendo un quesito tanto antico ed elementare quanto sempre diffuso e pregnante: quanto e cosa cambieremmo della nostra vita se potessimo percepirla nella sua interezza come una sequenza non cronologica di memorie passate e visioni future? Un ipotetico dilemma esistenziale di un certo peso anche perché, al di là della risposta, è proprio la sua connotazione ovviamente soggettiva a rendere universale il percorso della protagonista Louise, personaggio femminile di mirabile compiutezza il cui punto di vista onnisciente coincide non a caso con quello dello spettatore: interpretata da un’intensa ed efficace Amy Adams in stato di grazia (inspiegabilmente snobbata dall’Academy sebbene il film sia candidato a ben 8 premi Oscar), in tutto ciò la protagonista ci appare infatti proprio come una sorta di incarnazione della condizione umana, insicura ma appassionata nonché pronta a diventare eroica nel momento in cui accoglie la nuova consapevolezza con coraggiosa accettazione, decidendo di andare incontro alle più grandi gioie ma anche ai più strazianti dolori. Perché in fondo, come fa notare il sensibile e romantico teorico interpretato da Jeremy Renner (parafrasando Ralph Waldo Emerson), nella vita ciò che davvero importa è il viaggio e non la destinazione.
Arrival | |
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Summary
id.; di Denis Villeneuve; Con Amy Adams, Jeremy Renner, Forest Whitaker, Michael Stuhlbarg, Tzi Ma, Mark O'Brien, Nathaly Thibault, Joe Cobden; fantascienza; USA, 2016; durata: 116'. |
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