Sono gli anni Settanta quando Ron Stallworth (John David Washington) diventa il primo agente afroamericano a lavorare nel Dipartimento di Polizia di Colorado Springs. Accolto con scetticismo ma determinato a farsi un nome, ben presto Stallworth decide con coraggio di imbarcarsi in una missione pericolosa, ovvero infiltrarsi in una sezione locale del Ku Klux Klan per smascherarne le nefandezze. Per tale importantissima indagine sotto copertura, il giovane agente recluta quindi il collega di maggiore esperienza Flip Zimmerman (Adam Driver), insieme al quale formerà una squadra decisa ad impegnarsi per abbattere i complotti della famigerata organizzazione che mentre tesse appunto piani criminosi si prefigge al contempo di escogitare nuove strategie per conquistare le masse.
Dopo una lunga parentesi meno incisiva, durante la quale realizzò alcune opere minori incappando in alcuni fiaschi e qualche nuova polemica pur riuscendo a preservare il suo stato di autore acclamato (tanto da ricevere nel frattempo un Oscar alla carriera), ora finalmente Spike Lee torna a convincere appieno con un film che, tratto da un’insolita quanto entusiasmante storia vera, può forse considerarsi il suo più riuscito dai tempi di Inside Man. Sostenuto da una funzionale partnership produttiva tra QC, Blumhouse e la giovane Monkeypaw di Jordan Peele (fresco vincitore dell’Oscar per la sceneggiatura del suo esordio Scappa – Get Out), che gli hanno fornito un materiale stimolante e a lui congeniale, il regista ha appunto fatto centro con questo nuovo lavoro la cui data di uscita negli States coincide non a caso con il primo anniversario dell’infame raduno di nazionalisti a Charlottesville; infatti, sono proprio le immagini di repertorio di quegli scontri sfociati nel sangue ad invadere lo schermo in un’incisiva appendice che nell’epilogo punta così il dito dritto verso Trump per poi chiudere infine su una bandiera a stelle e strisce rovesciata che sfuma in bianco e nero. È la realtà di un’America che anche dopo oltre 150 anni pare in parte non volersi ancora rassegnare alla sconfitta dei Confederati e alla conseguente interdizione della schiavitù, eventi che il film evoca fin da subito aprendo infatti con il maestoso campo lungo dall’alto che in Via col Vento mostra Rossella O’Hara camminare sofferente tra i cadaveri dei soldati osservando la caduta del Sud. Un prologo curioso e magari di primo acchito straniante che però, nel rifarsi fin da subito al grande schermo con allusiva ironia, contrapponendosi inoltre così al duro e succitato finale di taglio documentaristico, in realtà fa da spia all’approccio e allo spirito con cui l’autore orchestra il tutto, filtrando questa volta l’usuale impegno sociale attraverso una beffarda contaminazione di toni non priva appunto di richiami e riferimenti cinematografici. Non a caso, in seguito sullo schermo irrompono alcune immagini di un altro celebre film americano come Nascita di una Nazione di Griffith, vetta del muto di indubbia importanza sul piano dell’innovazione tecnico-linguistica ma dal contenuto deliberatamente razzista: è la pellicola alla cui proiezione assistono tra grida di giubilo gli adepti del Klan in una delirante sequenza centrale alla quale Lee alterna come intenso contraltare un dolente e spettrale passaggio in cui un attivista interpretato dal veterano Harry Belafonte rievoca di fronte a una platea un terribile episodio di odio razziale sfociato nel linciaggio realmente avvenuto agli inizi del ‘900. In tale momento, tra i più coinvolgenti dell’intera pellicola, il regista (tra i più più provocatoriamente significativi narratori su schermo della cultura e della condizione afro-americana) palesa quel suo sempre presente risentimento che però qui si mantiene lucido e centrato, riversando quel fervore che lo contraddistingue in una sardonica vena umoristica a lui forse inedita che fa capo non solo a dialoghi vivaci e situazioni quasi paradossali: infatti, pur restando coerente con se stesso (anche nel carisma della messa in scena), stavolta Lee stempera con accortezza il suo noto e caratteristico tono militante incanalandone appunto la foga dei messaggi e l’indignazione che la anima in un sonoro schiaffo irrisorio ai movimenti razzisti di cui ridicolizza appunto i modi e sminuisce quindi i principi per depotenziarne così carica e fondamenti con sferzante efficacia. Ne è uscito un racconto di forte impegno civile ma divertente come un buddy movie e coinvolgente come un autentico poliziesco anni ’70 con cui l’autore, strizzando non a caso l’occhio alla Blaxploitation (sottogenere “all black” nato proprio in quel periodo e di cui il film richiama gustosamente toni, atmosfere, colori) torna a sfruttare appieno la forza persuasiva del (suo) cinema non solo per portare avanti il suo itinerario, ma anche per regolare i conti: se un tempo anche il grande schermo, attraverso la succitata pellicola di Griffith, contribuì a diffondere nuovamente l’ignobile propaganda del Klan, ora Lee rilancia utilizzando lo stesso mezzo per denunciare quanto quella stessa ideologia razzista sia ancora oggi innegabilmente radicata nella società statunitense, specialmente in un momento in cui l’attuale politica pare averla nuovamente e ulteriormente diffusa legittimata. A questo proposito, se tale retrogusto amarissimo scaturisce anche dalla reazione all’inchiesta da parte di un Sistema che ad un difficile ma radicale cambiamento preferisce un più comodo ma inutile silenzio, emblematico è inoltre lo scambio di battute tra Ron e uno smaliziato collega il quale alla sicurezza con cui il primo sostiene che l’America “non eleggerebbe mai qualcuno come Duke” risponde infatti smaliziato “come uomo di colore sei piuttosto ingenuo”. In tutto ciò, sebbene in tali inevitabili parallelismi con l’attuale situazione nordamericana il film rischi a tratti di sfociare nella retorica, Lee evita i facili moralismi dell’ordinaria opera a tesi riuscendo a non scadere nella demagogia assecondando gli equilibri dell’ottima sceneggiatura di Charlie Wachtel e David Rabinowitz (basata sull’autobiografia di Stallworth e integrata con contributi dello stesso regista e del fidato collaboratore Kevin Willmott): infatti, se da una parte l’irruenza della pur innamorata attivista Patrice è mitigata e talvolta persino contrastata dall’indole più riflessiva ed equilibrata di Ron (interpretato dall’azzeccato John David Washington, figlio di Denzel), dall’altra il giovane agente troverà invece una sorprendente intesa con il collega bianco Zimmermann (un sempre bravo Adam Driver), ebreo di nascita ma non di convinzione; non a caso quest’ultimo, spinto dalla situazione ad affrontare tale conflitto irrisolto e ritrovandosi quindi inaspettatamente a dover venire a patti con un disagio interiore per certi versi simile a quello del collega, capirà inoltre che l’importanza di imporsi e far valere la propria identità è in realtà un interesse comune che non dovrebbe limitarsi a determinate etnie o comunità, bensì coinvolgere tutti in nome di ciò che è giusto e umano. Perché la sentita causa di Spike Lee resta in effetti comunque universale, confermandosi inoltre nuovamente sempre attuale e quindi ancora più efficace, specialmente ora che (forse non a caso proprio in tempi di così palese criticità) il regista è finalmente tornato ad esprimerla al meglio, tanto da aggiudicarsi non solo il prestigioso Gran Prix al festival di Cannes, ma anche, finalmente, il suo primo Oscar competitivo (condiviso con i succitati co-autori) per la migliore sceneggiatura non originale.
BlacKkKlansman | |
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Summary
id.; di Spike Lee; con John David Washington, Adam Driver, Laura Harrier, Topher Grace, Ryan Eggold, Corey Hawkins, Robert John Burke, Alec Baldwin, Nicholas Turturro, Harry Belafonte; USA, 2018; durata: 135'. |
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