Dolor y Gloria

Dolor y Gloria

In concomitanza con un cineforum in cui sarà proiettata una versione restaurata del suo film di maggiore successo, il regista Salvador Mallo (Antonio Banderas) si trova ad affrontare un periodo di profonda crisi sia a livello fisico che sul piano creativo, durante il quale si alternano e confondono vividi ricordi ed importanti ricongiungimenti: dall’infanzia trascorsa nella Paterna degli anni ’60 sotto l’ala della risoluta madre (Penélope Cruz) alla scoperta dell’amore nella Madrid degli anni ’80, dalla precoce scoperta del cinema a quella tardiva dell’eroina, dagli acciacchi che lo affliggono alla rappacificazione con un problematico attore fino alla riconsiderazione del valore di quella spinta creativa che potrebbe aiutarlo a riemergere.

Fin dagli inizi, Pedro Almodóvar ha più o meno esplicitamente riversato in ogni sua opera la propria indole focosa, fortemente dissacrante ma al tempo stesso profondamente sensibile, riuscendo ben presto ad imporre uno stile e un approccio divenuti talmente personali e riconoscibili da assurgere ad una sorta di teorema espressivo non a caso da molti identificato con un neologismo che è un’estensione del suo nome. Tuttavia, negli ultimi tempi tale cosiddetto registro “almodovariano” pareva in effetti un po’ appannato, o comunque piuttosto lontano da quella maturità pienamente raggiunta a cavallo tra i due secoli che (coronata da numerosi riconoscimenti internazionali, tra cui 2 Oscar e altrettanti premi a Cannes) cementò definitivamente il prestigio di colui che divenne così uno dei registi non anglofoni forse più famosi nel mondo; ma è proprio attraverso l’indagine di tale stanchezza (fisica e creativa) che, dopo una parentesi un po’ sbiadita (estesasi a dieci anni e quattro film minori), il celebrato autore spagnolo ritrova ora finalmente quella forma più pura ed efficace della sua poetica: un ritorno che, quasi paradossalmente, coincide con un ulteriore rinnovamento attuato appunto riversando tale attenta, sofferta e sincera autoanalisi in questo suo 21esimo lungometraggio che come tale segna quindi il passaggio dall’ammiccante o libera allusione ad un’autentica e più diretta confessione. Perché, pur preservando gran parte degli elementi che lo contraddistinguono, stavolta il regista filtra e trasfigura il tutto in un ricco puzzle di rievocazioni dichiaratamente autobiografiche che nel comporsi delinea su schermo una vivida e profonda esperienza interiore che come tale pare guardare a Fellini e al suo 8 1/2. Infatti, il risultato è un incontro-scontro tra seduta psicanalitica ed esame di coscienza che, fondato sui contrasti tra luci ed ombre dell’esigenza espressiva, è snodato facendo la spola tra passato e presente concentrandosi su due fasi di vita complementari tradottesi appunto in altrettante forme creative letteralmente intitolate “dipendenza” e “primo desiderio”, la prima testata e resa a parole per sparire dimenticando mentre la seconda riscoperta e poi messa in immagini per risorgere rievocando. In tutto ciò, affievolendo la componente trasgressiva in favore di quella emotiva ma preservando quella pietas di disteso stoicismo alla base della sua vincente tecnica di girare melodrammi come fossero commedie o viceversa, Almodóvar orchestra con ammirevole fluidità e sincera partecipazione un intreccio che scorre come un continuo flusso mentale e memoriale sublimato però in un florido eppure armonioso gioco di doppi, simmetrie, citazioni e contrapposizioni pronto a sfociare nel meta-cinema: così, tra riferimenti filmici (da Niagara a Splendore nell’Erba), letterari (il Pessoa de “Il Libro dell’Inquietudine”) e musicali (la Mina di “Come Sinfonia”), le parole si riversano su un palco e l’antico sogno si intreccia ad un sentimento mai sopito, mentre alla compagnia dei dipinti si sovrappone l’affetto per un vecchio disegno da cui echeggiano i canti di una madre che è al centro prima di un luogo e un tempo del passato e poi di un obiettivo rimesso a fuoco per guardare al futuro. È il potere salvifico della creatività (e quindi, in questo caso, del cinema) che, nel confondersi con l’esistenza, diventa sfogo, linguaggio, rifugio e liberazione, facendo così inoltre a suo modo il paio con la simile concezione che l’autore ha da sempre del corpo (altro centrale leitmotiv del suo cinema); nello specifico, se il dolore fisico accompagna e rispecchia la crisi esistenziale, la gloria ne è causa e al tempo stesso rimedio per Salvador Mallo come anche per lo stesso Almodóvar, il quale arricchisce e quindi rilancia il suo universo di allegre sorellanze e corpi come luoghi dell’anima, intensi rossi da corrida e tortuosi labirinti di passioni, traendo appunto nuova linfa vitale dalla genuina e viscerale passione per la sua arte e trovando in Antonio Banderas un alter-ego convinto e convincente: infatti, premiato non a caso al festival di Cannes per quella che è forse la sua migliore interpretazione, l’attore feticcio del regista (che per l’occasione ritrova anche l’intensa musa Cruz) riesce ad infondere dignitosa sofferenza, vibrante profondità e commovente verità a questo notevole, toccante e trascinante (auto)ritratto di un maestro ora tornato finalmente ai fasti di un tempo.

Dolor y Gloria
Dolor y Gloria
Summary
id.; di Pedro Almodóvar; con Antonio Banderas, Asier Etxeandía, Penélope Cruz, Leonardo Sbaraglia, Julieta Serrano, Nora Navas, Julieta Serrano; drammatico; Spagna, 2019; durata: 113’.
80 %
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