La prematura morte della figlioletta spinge l’ingegnere aeronautico Neil Armstrong (Ryan Gosling) a partecipare al programma Gemini, nato per sviluppare le procedure necessarie ad affrontare viaggi spaziali da impiegare nella storica impresa dell’Apollo 11. Assoldato come comandante della missione e supportato dalla moglie Janet (Claire Foy), Neil diventa quindi il primo uomo a poter volare nello spazio, sfidando difficoltà tecniche, fatali incidenti ed eventuali ripercussioni per affrontare il silenzio del cosmo e puntare letteralmente alla luna.
Dopo i serrati ritmi jazz di Whiplash e le romantiche coreografie dell’iconico La La Land (per il quale si aggiudicò un meritato Oscar), nel portare ora sullo schermo la figura di Armstrong il giovane quanto lanciato Damien Chazelle ritrova Ryan Gosling ma cambia registro misurandosi per la prima volta con un’opera basata su fatti realmente accaduti e senza la musica come elemento portante, tornando in ciò a sorprendere confermando la sua precoce quanto cosciente maturità. Perché, sebbene a livello di impianto possa considerarsi il suo lavoro più classico, in realtà First Man si rivela invece un’ambiziosa opera sui generis tutt’altro che convenzionale per come, nello snodare un racconto di missioni rischiose alla Apollo 13 o Uomini Veri, il regista lo asciuga del patriottismo tipico di tale filone per calarlo piuttosto in una dimensione intima più associabile all’introspezione di Gravity e per certi versi perfino alle elucubrazioni di Malick. Infatti, nel mettere in immagini la sceneggiatura che il capace Josh Singer (anch’esso già premio Oscar per Il Caso Spotlight) ha abilmente tratto dalla biografia di Armstrong scritta da James R. Hansen, Chazelle opta per una mirata alternanza tra piani narrativi (e tematici) che si sovrappongono alimentandosi a vicenda attraverso un’attenta compenetrazione tra il versante pubblico e quello privato: così, mentre da una parte si seguono e delineano le tappe dell’impresa ben restituendone innanzitutto il senso di pericolo e difficoltà (tra fiamme improvvise, rumori stridenti e imprevisti sul campo), dall’altra il tutto si intreccia e riversa in un dramma familiare svolto in prima persona attraverso il quale emergono gli aspetti meno conosciuti della difficile personalità del protagonista. Ne è uscito un resoconto cupo e dolente che, pur impostato come un solido colossal spettacolare (coadiuvato in ciò da notevoli contributi tecnici da parte di fidati collaboratori del regista, dalla fotografia di Linus Sandgren al montaggio di Tom Cross fino alle musiche di Justin Hurwitz e agli effetti speciali premiati con l’Oscar), si snoda appunto con un approccio decisamente intimista che come tale rifiuta gli hollywoodiani toni gloriosi in favore di una più sommessa quanto profonda e stratificata analisi introspettiva: non a caso, anche nello svolgere le sequenze dell’impresa, Chazelle orchestra il tutto con grande padronanza optando per inquadrature strette e altrettanto opprimenti soggettive in linea con quell’emotività trattenuta che anima un racconto popolato da eroi rappresentati come dolorosi reduci mentre si muovono negli angusti ambienti delle navicelle che richiamano quelli di cucine familiari popolate da tragici fantasmi; perché, pur dando conto nel frattempo delle implicazioni socio-politiche della vicenda (dai moti sessantottini finanche soprattutto alla volontà di preponderanza sui sovietici), l’ideologia è appunto subordinata all’umanità in questa storia di coraggio senza epica che così assume in effetti i connotati di intenso dramma sull’elaborazione del lutto in cui l’allunaggio è una conquista che coincide con un simbolico funerale in cielo per poter trovare un nuovo inizio sulla terra. Dei sogni, delle ambizioni e delle danze tra le stelle del succitato La La Land rimane qui innanzitutto la disillusione che smuove la volontà, quella di un’America di reali o ideali sopravvissuti che il personaggio di Armstrong qui ben incarna, svolgendo infatti la missione non per l’onore che deriva dal consueto orgoglio yankee, bensì per superare un dolore mai lenito (ovvero appunto la perdita della figlia) che ha segnato la sua esistenza, intaccatone il destino e gli affetti; in ciò, esemplari appaiono i passaggi che delineano il rapporto tra il protagonista e la stoica quanto complice moglie Janet, interpretata da una incisiva Claire Foy la quale (ormai lanciata dopo il successo della serie TV The Crown) ben supporta un Gosling perennemente sotto le righe la cui usuale impenetrabilità risulta qui confacente all’interiorizzato tormento di una figura che in tale ritratto pare quindi sfuggire alla tipica definizione di eroe americano. Perché in effetti, pur mantenendosi al contempo decisamente avvincente nell’esporre la straordinarietà degli eventi, questo personale e a suo modo controcorrente resoconto dell’impresa (non a caso molto ben accolto dalla critica fin dall’anteprima fuori Concorso al festival di Venezia) resta innanzitutto il racconto di come la stessa abbia rappresentato un grande passo anche per un uomo, non solo per l’umanità.
First Man - Il Primo Uomo | |
First Man - Il Primo Uomo | |
Summary
"First Man"; di Damien Chazelle; con Ryan Gosling, Claire Foy, Corey Stoll, Jason Clarke, Kyle Chandler, Pablo Schreiber, Christopher Abbott, Ciarán Hinds, Brian D'Arcy James; USA, 2018; durata: 141'. |
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1 Comment
Onesto e spietato
Sono d’accordo con quanto scrivi. Io l’ho trovata l’opera più personale di Chazelle, o meglio quella in cui è riuscito ad imprimere con evidenza la sua impronta di “autore in fieri” e a lavorare sul proprio sguardo cinematografico dalla forte impronta umana. Come anche scrivo sul mio blog, potremmo dire che è “un piccolo passo per il cinema, un grande balzo per Chazelle”. Perchè in effetti il film in sè ha uno stampo piuttosto classico, ma il “touch” di Chazelle inizia veramente ad essere qualcosa di assolutamente riconoscibile.