Nella Londra del dopoguerra, il rinomato sarto Reynolds Woodcock (Daniel Day-Lewis), perennemente affiancato dalla sorella Cyril (Lesley Manville), si distingue nell’ambiente della moda britannica realizzando splendidi abiti per nobili dame, celebrità, famiglie reali, ereditiere e debuttanti. Nel frattempo, le donne entrano ed escono nella vita di Woodcock offrendogli ispirazione e compagnia, almeno fino a quando lo scapolo incallito non incontra la giovane e volitiva cameriera Alma (Vicky Krieps): infatti, ben presto quest’ultima diventa parte della sua vita come musa ed amante, ma col tempo tale rapporto finirà inaspettatamente per stravolgere la vita fino a quel momento del tutto controllata dell’enigmatico stilista.
Qual è il “filo fantasma” a cui si riferisce il più calzante titolo originale dell’ottavo, grande film di Paul Thomas Anderson, capace ad ogni opera di confermarsi puntualmente uno dei più interessanti autori nell’attuale panorama cinematografico statunitense? Probabilmente, sia sul piano stilistico che su quello tematico, è quello dell’ossessione (in realtà tutt’altro che nascosto, come invece lo presenta la versione italiana) che lega non solo i due protagonisti ma anche le opere del regista come un leitmotiv in continua evoluzione nella sua filmografia. Ricollegandosi infatti alle dinamiche non convenzionalmente sentimentali di Ubriaco d’Amore aggiornandole però alla folle eccedenza de Il Petroliere e al binomio tra controllo e potere di The Master, dopo aver incanalato nella lisergica trasposizione di Vizio di Forma quelle influenze di Altman e Scorsese che caratterizzavano anche i precedenti Syndey, Boogie Nights e Magnolia, l’autore amplia ora ulteriormente la sua gamma di referenze per raccontare un’altra opprimente relazione: nell’intrecciare rimandi più o meno espliciti a Lean, Ophuls, Sirk e Welles in una messa in scena che, tra richiami a Powell e Pressburger e suggestioni alla Kubrick, rievoca anche le atmosfere di Hitchcock (guardando specialmente a Rebecca, la Prima Moglie e La Donna che Visse Due Volte), Anderson imbastisce una narrazione in bilico tra ipnotica solennità e gotico romanticismo lungo la quale delinea appunto con maestosa perizia un nuovo, ambiguo e totalizzante legame ossessivo. Perché, nel rivisitare così un certo cinema classico da una prospettiva personale e sorprendente, è proprio l’evoluzione di tale nodale assillo a scandire il progressivo ed imprevedibile scambio di ruoli che il regista mette in scena lavorando paradossalmente di sottrazione per diramare con estrema perizia la complessa e sottile stratificazione di sensazioni, analogie, allusioni metaforiche e percorsi plurimi che lo animano (dal mito di Pigmalione al complesso di Edipo); ne è uscito un atipico melodramma psicologico raffreddato ma pervaso di soffusa sensualità, tesissimo e a tratti ghignante (specialmente nei risvolti stranianti ai limiti col grottesco che, come di consueto nel cinema di Anderson, rispecchiano l’ambivalenza dei suoi personaggi), in cui il regista e sceneggiatore racconta appunto di una doppia ossessione complementare che, sfociando in un confronto in altalena tra lotta per il controllo e battaglia dei sessi, scardina l’equilibrio del protagonista: ispirato alle figure di iconici stilisti inglesi come Hardy Amies, Charles James e il sarto di corte Norman Hartnell, ma anche allo spagnolo Cristóbal Balenciaga, l’impenetrabile Woodcock (un Daniel Day-Lewis come sempre magnetico ed infallibile) vede infatti corrispondere alla maturazione del rapporto con Alma (l’efficacissima rivelazione lussemburghese Vicky Krieps) il progressivo cedimento di quelle barriere emotive che prima garantivano il controllo della sua esistenza; perché la maniacale dedizione alla sua professione nel segno di una costante ricerca della perfezione artistica, sostenuta non solo dal rifiuto degli affetti ma anche dall’assillante ricordo della madre e dalla co-dipendenza con la sorella (un’austera Lesley Manville di impeccabile precisione), finisce appunto così per canalizzarsi in tale nuovo, inatteso attaccamento che manifesta e confonde inflessibilità e insofferenze (le rituali colazioni), superstizioni e segreti (i messaggi cuciti nelle fodere degli abiti), fissazioni (il feticismo per il vestiario) e fantasmi: non a caso, lo spirito della madre mostrato in una sequenza ad effetto dai toni quasi onirici scompare proprio per lasciare il posto allo spettro di un sentimento la cui essenza, per non svanire, necessita paradossalmente di una componente “velenosa”, assumendo quindi i connotati di una sorta di patologia a cui soccombere assecondando un reciproco scambio di sadismo e masochismo che, tra disperata esigenza e complice perversione, appare come una radicale soluzione per alimentare la passione romantica (ma anche, di conseguenza, la creatività da essa ispirata). In tutto ciò, nell’orchestrare magistralmente questo gioco delle parti ipnotico ed elegante, commentato dalla calzante colonna musicale dell’abituale collaboratore Jonny Greenwood e sorretto da una grande ricercatezza formale (dai sontuosi costumi di Mark Bridges premiati con l’Oscar alla splendida fotografia dello stesso regista), Anderson ha sfiorato il capolavoro realizzando un’opera trascinante e insieme coerentemente respingente il cui fascino arcano ha conquistato anche i non sempre così lungimiranti soci dell’Academy: infatti, oltre al succitato premio al cruciale vestiario, a sorpresa il film ha ricevuto altre cinque rilevanti nomination agli Oscar, ovvero miglior film, regia, colonna sonora, miglior attrice non protagonista alla già menzionata comprimaria Manville e ovviamente miglior attore al sempre grande Daniel Day-Lewis, come di consueto eccellente in un’interpretazione che, se davvero resterà la sua ultima prima dell’annunciato ritiro, segna la degna chiusura di una carriera davvero straordinaria.
Il filo nascosto | |
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Summary
"Phantom Thread"; di Paul Thomas Anderson; con Daniel Day-Lewis, Vicky Krieps, Lesley Manville, Brian Gleeson, Harriet Sansom Harris, Camilla Rutherford, Gina McKee, Sue Clark, Joan Brown; USA, 2017; durata: 130'. |
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