Quando Vito Corleone (Marlon Brando), potente patriarca di un clan mafioso italoamericano, rimane vittima di un attentato, il suo riluttante figlio Michael (Al Pacino) si verrà costretto ad occuparsi degli “affari” di famiglia: inaspettatamente, imparerà presto.
Tratto dal romanzo di Mario Puzo (che l’ha anche adattato per lo schermo insieme al regista) e vincitore di 3 Oscar per miglior film, sceneggiatura non originale e miglior attore all’immenso Marlon Brando (il quale però rifiutò clamorosamente il premio), è il primo capitolo della trilogia cinematografica di Coppola dedicata ai Corleone divenuta una delle più celebri saghe della storia del cinema. Entrando infatti nel mito fin da quei primi secondi in cui risuona la fatalmente intensa ed iconica colonna sonora di Nino Rota, la pellicola acquista una maestosa solennità fin dalla sequenza iniziale, nella quale un uomo, in una stanza in penombra (straordinaria fotografia di Gordon Willis), chiede giustizia per la figlia: nel frattempo, per due minuti buoni il suo interlocutore rimane soltanto una presenza di cui, mentre l’inquadratura si allarga lentamente, prima si ode la voce e solo in seguito vengono rivelate le fattezze, palesando infine allo spettatore la figura di Don Vito Corleone, la cui influenza capiamo ben presto estendersi ben oltre quella stanza. Infatti, nel frattempo all’esterno è in corso il matrimonio della figlia, evento che in realtà passa in secondo piano in quello che è in realtà un lungo ed efficace preambolo per introdurre piuttosto con calzante solennità lo spaccato di realtà americana in cui è calata la vicenda e soprattutto il ruolo che il clan guidato dal potente patriarca ricopre nella stessa. Perché è proprio questo sistema familiare il fulcro di una storia di clan in cui il tramonto di Vito corrisponde all’ascesa del figlio Michael, all’inizio distante da un codice morale in cui ben presto finirà per rispecchiarsi completamente: emblematica a questo proposito è la scena del battesimo, con la promessa di Michael di rinuncia a Satana che coincide paradossalmente con il momento in cui invece si sancisce la sua affermazione al potere; similare in questo senso è inoltre il finale, quando nega di aver commesso i crimini mentendo così alla moglie Kay (interpretata da un’ottima Diane Keaton, l’unica insieme a Pacino ad avere un ruolo chiave in tutti e tre i film), la quale però capisce la verità quando vede il marito ricevere gli omaggi dovuti al nuovo Padrino nello studio del padre, la cui porta si chiude su di lei insieme al film: come l’incipit, anche l’epilogo è visto dallo spettatore con gli occhi del patriarca. Perché la saga dei Corleone procede infatti per pregnanti contrapposizioni, alimentando così una profonda e complessa ambiguità, in cui lo stile che pare in altalena tra vecchia e nuova Hollywood si riflette nell’antitesi interna tra vecchia e nuova America. Non privo, infatti, di un particolare occhio nostalgico per quei valori americani che oggi sembrano essersi perduti, Il Padrino è però in questo anche una lucida e disincantata riflessione sulla morale del crimine, snodata attraverso tale sapiente ricostruzione di un’epoca e motivata da quel parallelismo tra mafia e politica che in progressione diverrà equivalenza nell’imperdibile seguito: uscito due anni dopo e anch’esso trionfatore agli Oscar ottenendo 6 premi (tra cui di nuovo il principale come miglior film e questa volta anche quello alla regia), tale palinsesto centrale del trittico è al tempo stesso un prequel e un sequel, con due linee narrative che si evocano ed incorporano; infatti, nella prima si rievocano l’infanzia e l’ascesa al potere del giovane Vito, interpretato questa volta da Robert De Niro (che riprendendo il ruolo che fu di Brando fu anch’esso premiato dall’Academy), mentre nella seconda si continuano a seguire le vicende di Michael, ormai da anni alla guida di quell’impero che continuerà ad espandersi fino al declino raccontato nel terzo e conclusivo film della saga (datato invece 1990). In tutto ciò, come in una sorta di parabola umana discendente che, così ricca di implicazioni sociologiche e politico-culturali, può essere quindi leggibile anche come un’ambiziosa e spiazzante metafora sull’America, questa epica gangster story assume così progressivamente i toni cupi di una vera e propria tragedia moderna, sfociando finanche nel melodramma nella succitata Parte III, generalmente ritenuta a ragione inferiore alle due precedenti anche se comunque non priva di pagine forti: si veda ad esempio il lunghissimo quanto incredibilmente articolato blocco narrativo finale (in cui la Cavalleria rusticana di Mascagni fa da sottofondo alla serie di omicidi raccontati in montaggio incrociato) o anche la conclusione con la morte del Padrino che cade a terra dalla sedia come un fantoccio, sequenza malinconica e ricca di pathos anche se vista da una certa distanza. Perché infatti, affrontando appunto la materia con uno sguardo certo consapevole ma tuttavia distaccato (dimostrandosi quindi più interessato che affascinato), ciò che Coppola ha saputo in realtà mettere magistralmente in scena non è certo una mera esaltazione del crimine o del Male, bensì piuttosto una lucida testimonianza della fine di un’epoca, della caduta del cosiddetto Sogno Americano e delle conseguenti ripercussioni sui concetti di famiglia, onore, valore. Ciononostante, forse proprio anche perché all’epoca tale approccio fu invece inizialmente scambiato da molti per compiacimento, alla sua uscita il film destabilizzò e divise la critica, ma successivamente fece incetta di premi e divenne uno straordinario successo, radicandosi quindi ben presto nell’immaginario collettivo ed entrando così meritatamente nel mito.
Il Padrino | |
Il Padrino | |
Summary
"The Godfather"; di FRANCIS FORD COPPOLA; con MARLON BRANDO, AL PACINO, JAMES CAAN, ROBERT DUVALL, DIANE KEATON, TALIA SHIRE, RICHARD CASTELLANO, JOHN CAZALE, STERLING HAYDEN, JOHN MARLEY, AL LETTIERI, GIANNI RUSSO, JULIE GREGG, ANGELO INFANTI, FRANCO CITTI, RICHARD BRIGHT; drammatico; USA, 1972; durata: 175'; |
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