Brooklyn, 1957. Il pittore di ritratti e paesaggi Rudolf Abel (Mark Rylance) viene arrestato con l’accusa di essere una spia sovietica. Nonostante il regime di guerra fredda ne faccia un nemico certo e terribile, la democrazia impone che venga processato. Per ribadire i principi costituzionali americani, il suo dovrà essere un processo breve, e la scelta dell’avvocato cade su James B. Donovan (Tom Hanks), che fino a quel momento si è occupato di assicurazioni. Mentre Donovan prende sul serio la difesa di Abel, attirandosi l’incomprensione dell’opinione pubblica e di sua moglie Mary (Amy Ryan), un aereo spia americano viene abbattuto dai sovietici e il tenente Francis Gary Powers (Austin Stowell) viene fatto prigioniero in Russia. Quando si profila la possibilità di uno scambio, la CIA incarica Donovan stesso di gestire il delicatissimo negoziato.
Dopo il non esaltante War Horse (instabile compromesso tra epica alla John Ford e spettacolo hollywoodiano) e l’ottimo Lincoln (pregnante affresco in costume travestito da solido thriller politico), Steven Spielberg rimane nell’ambito a lui congeniale del racconto in scenario storico, già frequentato in più occasioni (da Il Colore Viola a L’Impero del Sole, da Amistad fino ai premiatissimi Schindler’s List e Salvate il Soldato Ryan), realizzando una riuscita trasposizione di fatti reali che risulta perfettamente in linea con la sua filmografia. Diviso in due parti distinte, inizia negli Stati Uniti come un legal thriller per poi trasferirsi in Europa ed evolversi in una coinvolgente spy-story in puro clima da guerra fredda, il tutto con un impianto profondamente classico che pur guardando al vecchio cinema precedente alla New Hollywood (lo sviluppo lineare, il rigore della ricostruzione storica, l’incipit alla Hitchcock) assume al tempo stesso una connotazione tipicamente spielberghiana: libero da manierismi e aperto all’inventiva, quello del regista premio Oscar resta un classicismo che, solido nella costruzione e limpido nello stile, punta su un approccio profondamente umanista per offrire un nuovo, ottimo esempio di drammatizzazione della Storia a forte impatto emotivo, trascendendo gli aspetti più smodatamente propagandistici a favore di quelli edificanti. Vi inciampa nella parte conclusiva, un po’ appesantita dalla moltiplicazione dei finali, in una concessione alla drammaturgia hollywoodiana e a quella retorica sentimentale che peraltro è da sempre parte integrante del suo cinema, ma è l’unico (e lieve) cedimento di un film che scorre senza scompensi, fluido e controllato nel ritmo riflessivo ma coinvolgente, sontuoso a livello visivo (fotografia del fidato Janusz Kaminski) e pregiato nella confezione (scenografie di Adam Stockhausen, montaggio di Michael Kahn, musiche di Thomas Newman, che sostituisce l’abituale collaboratore John Williams). Ricco di riferimenti alla realtà contemporanea (dalle tensioni tra USA e Russia al difficile equilibrio tra sicurezza e libertà personali), è infatti diretto con l’usuale padronanza dal regista che, assecondando la sceneggiatura di Matt Charman revisionata dai fratelli Coen, questa volta tiene anche a bada il suo tipico patriottismo, preferendo piuttosto un sincero e non demagogico rispetto per i personaggi; infatti, anche per quanto riguarda il tessuto tematico, più che all’urgenza politica di un’altra spy-story come Munich, questo suo ultimo lavoro pare piuttosto portare avanti il discorso sugli ideali del più recente Lincoln (che gli è però superiore), confermando al contempo il consueto interesse di Spielberg per protagonisti che, pur tormentati da conflitti interiori, perseguono il loro obiettivo con una rettitudine che può trascendere le pur ferme convinzioni ideologiche: infatti, se da una parte dall’enigmatico stoicismo del russo Abel traspaiono comunque i chiaroscuri della sua complessa personalità (rimarcati dalla sua emblematica professione di ritrattista), dall’altra la sua ferma fedeltà al codice d’onore lo accomuna all’americano Donovan, di schieramento opposto ma come lui uomo “tutto d’un pezzo” la cui indistruttibile integrità morale resta al servizio di un’inattaccabile etica della giustizia; anche per questo, si inserisce a pieno merito tra gli eroi spielberghiani, per la maggior parte individui comuni che compiono azioni straordinarie. Per la quarta volta diretto dall’amico regista, Tom Hanks lo delinea in maniera sempre attenta e vigile, anche se la vera rivelazione è l’inglese Mark Rylance (affermato teatrante troppo trascurato dal cinema), meritatamente premiato con l’Oscar come miglior attore non protagonista.
Il Ponte delle Spie | |
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Summary
“Bridges of Spies”; di Steven Spielberg; con Tom Hanks, Mark Rylance, Amy Ryan, Alan Alda, Austin Stowell, Jesse Plemons, Scott Shepherd, Domenick Lombardozzi, Sebastian Koch, Will Rogers, Eve Hewson, Dakin Matthews, Michael Gaston, Billy Magnussen; spionaggio; USA, 2015; durata: 141’. |
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