In occasione del centenario della sua nascita, ripercorriamo la vita e ricordiamo le opere del grande regista svedese Ingmar Bergman, universalmente considerato uno dei massimi autori europei nonché uno dei più eminenti Maestri della storia del cinema. Fortemente radicato nella cultura teatrale e letteraria del suo Paese, divenne celebre per le sue opere ricche di importanti tematiche legate all’esistenza umana come il dubbio di fede e il silenzio divino, l’incomunicabilità tra individui e le pulsioni interiorizzate, i conflitti generazionali e le crisi familiari o di coppia, il tutto oscillando tra influenze teatrali e personale sperimentazione fino a raggiungere un’altissima pregnanza espressiva sia a livello formale che contenutistico.
Nato a Uppsala il 14 luglio 1918, trascorse l’infanzia spostandosi continuamente per seguire l’attività del padre, severo pastore luterano con il quale aveva un rapporto conflittuale: tutto ciò lascerà segnerà profondamente la sua esistenza influenzando anche la sua produzione, tra i cui temi ricorrenti spiccano infatti non solo le incomprensioni generazionali e i contrasti con figure autoritarie, ma anche la crisi di fede (che Bergman sperimentò fin dalla tenera età). Le tensioni con il padre continuarono con il tempo ad inasprirsi tanto che, dopo i primi infelici anni di scuola, tale situazione (sfociata in seguito in una violenta rottura del rapporto con il genitore, durata poi diversi anni) contribuì alla sua decisione lasciare la famiglia (che nel frattempo si era trasferita stabilmente nella capitale svedese) quando ancora muoveva i primi passi nell’ambiente teatrale studentesco. Iscrittosi infatti nel 1937 all’Università di Stoccolma per studiare appunto teatro e letteratura, pur non concludendo il percorso didattico collaborò con vari professionisti del settore per venire in seguito assunto al Reale Teatro dell’Opera come assistente alla regia, scrivendo al contempo diverse pièce e arrivando a dirigere una sua commedia; fu così che, sviluppata nel frattempo la passione per il cinema, si fece notare dai membri della produzione cinematografica Svensk Filmindustri che gli offrirono quindi il suo primo impiego nell’ambiente del cinema come revisionista di copioni e autore dei dialoghi. Fu l’inizio di quella che diventerà una lunga collaborazione con alcuni tra i più importanti registi svedesi dell’epoca come Victor Sjostrom, Gustaf Molander e Alf Sjoberg, per il quale nel 1944 Bergman scrisse la sceneggiatura di Spasimo, film che segnò anche la sua prima esperienza sul set. Il successo internazionale della pellicola (che coincise con un ulteriore intensificarsi della sua attività teatrale), lo portò nel 1946 ad esordire alla regia cinematografica con Crisi, produzione a basso costo portata a termine tra varie difficoltà ma accolta dal pubblico con una certa freddezza (sorte toccata anche al suo secondo film Piove sul Nostro Amore).
Dopo il debutto, negli anni successivi Bergman ebbe comunque la possibilità di continuare a scrivere e dirigere altri film, spesso influenzati dalla grande tradizione teatrale svedese (da cui non a caso, con un occhio di riguardo per l’opera di Strindberg, trasse molte volte ispirazione), ma anche dal realismo poetico francese di Carné e Duvivier; tra questi spicca sopratutto Prigione, nel quale, sulla scia dei precedenti La Terra del Desiderio e Musica nel Buio (entrambi realizzati nel 1947 grazie al supporto di una produzione indipendente), si inizia a notare con maggiore evidenza una personale evoluzione sia sul piano stilistico che a livello di contenuti: infatti, oltre a superare certi canoni di stampo neorealista in favore di un approccio più espressionista, a questo punto Bergman inizia inoltre ad insinuare nella trama quei dubbi esistenziali che in seguito attraverseranno in maniera ricorrente e determinante la sua filmografia, costantemente contraddistinta appunto anche da una centrale, profonda e pregnante indagine dell’animo umano. Il successo di Prigione convinse la Svensk Filmindustri a dare subito una nuova possibilità al regista, che nei quattro anni successivi girò quindi ben cinque film, tra i quali spiccano soprattutto il notevole Un’Estate d’Amore (malinconico dramma ricco di riferimenti autobiografici sul ricordo di un amore tragico) e il successivo Donne in Attesa (intimo ritratto di un gruppo di donne che attendono il ritorno dei compagni, presentato pur in sordina al festival di Venezia). Sull’onda di tale prolifica produzione, gli anni Cinquanta si rivelarono un periodo molto importante per Bergman, che infatti si concentrò su una più personale sperimentazione che lo portò ad aumentare le invenzioni stilistiche e a dimostrare una sempre maggiore padronanza del linguaggio, evidente anche nell’attenta e funzionale dilatazione dei tempi; esemplari in tal senso sono ad esempio Una Lezione d’Amore (in cui tornò ad osservare i rapporti familiari pur con un registro più leggero) e Sogni di Donna (in cui indagò nuovamente le turbe sentimentali), ma anche e soprattutto Monica e il Desiderio e Una Vampata d’Amore (entrambi girati nel 1953): il primo, tristissima storia d’amore intrisa di pessimismo e struggente sensualità che fece scandalo, suscitò l’ammirazione di Godard e segnò la prima delle numerose collaborazioni tra Bergman e l’attrice Harriet Andersson (che divenne una delle sue attrici predilette); il secondo, cupo e notevole racconto di ambientazione circense, si distingue invece per una più audace attenzione formale (di nuovo influenzata dall’espressionismo) applicata ad un linguaggio prettamente metaforico.
Tale dimensione allegorica si svilupperà anche in numerosi film successivi, a partire dal seguente Sorrisi di una Notte d’Estate, splendida ed elegante commedia senza dubbio tra le migliori di Bergman, in cui il contesto leggero da pochade non cela comunque la puntuale amarezza di fondo: premiato a Cannes per il suo “umorismo poetico”, fu anche il film che iniziò ad espandere la sua popolarità in tutta Europa. Infatti, mentre in parallelo continuava a portare avanti anche la sua attività teatrale (lavorando al teatro municipale di Malmo, dove mise in scena diverse opere importanti), nel 1957 arrivò la consacrazione con il celebre Il Settimo Sigillo, evocativo racconto allegorico sulla ricerca del divino ispirato a una pièce dello stesso regista, in cui un cavaliere di ritorno dalle Crociate (interpretato da Max Von Sydow) incontra la Morte che lo sfida a scacchi; girato in studio a basso costo, il film ricevette il Premio Speciale della Giuria al festival di Cannes e rese appunto più solida la fama internazionale dell’autore, che si cementò poi definitivamente con quello che forse resta il suo più celebre capolavoro, ovvero Il Posto delle Fragole, realizzato nello stesso anno: anche qui i dubbi esistenziali e la percezione della morte, con le relative implicazioni filosofiche e ideologiche, attraversano in modo cruciale uno svolgimento ricco di aperture oniriche che rimane sospeso tra realtà e sogno (altro elemento ricorrente nel cinema dell’autore) per indagare l’interiorità del protagonista, un anziano professore (interpretato da Sjostrom) che insieme alla nuora (ruolo affidato invece ad Ingrid Thulin) intraprende un viaggio denso di incontri e ricordi; oltre alla candidatura all’Oscar per il miglior soggetto, il film ottenne anche l’Orso d’Oro a Berlino e il Premio della Giuria a Venezia, riconoscimento che Bergman riceverà nuovamente nel 1959 per Il Volto (anch’esso molto ben accolto, a differenza del precedente Alle Soglie della Vita, che invece fu relegato tra le sue opere minori pur vincendo il premio per la miglior al festival di Cannes).
Gli anni Sessanta rappresentarono un’ulteriore svolta per l’autore, che infatti, oltre ad arricchire i suoi simbolismi accentuò anche la sua attenzione alle immagini, lavorando spesso per sottrazione anche a livello di ambientazioni ma continuando al contempo ad indagare la solitudine, l’incomprensione e più in generale i conflitti umani e le contraddizioni della crisi esistenziale. Tra i film di questo periodo, oltre alla curiosa commedia grottesca L’Occhio del Diavolo e prima della male accolta parentesi più leggera con A Proposito di Tutte Queste… Signore (suo primo film a colori e sua ultima commedia), degne di nota sono inoltre due pellicole entrambe premiate con l’Oscar come miglior film straniero, ovvero La Fontana della Vergine (storia di vendetta in contesto medievale) e Come in uno Specchio (angoscioso film su una giornata di follia): quest’ultimo è anche il primo dei tre film da camera che compongono la cosiddetta “trilogia del silenzio di Dio”, proseguita con il bellissimo Luci d’Inverno e conclusa con lo scandaloso Il Silenzio, gettando inoltre le basi per i suoi progetti seguenti, anch’essi girati sull’isola di Faro, nel mar Baltico; tale luogo divenne infatti per Bergman un prezioso e significativo riferimento, tanto che il regista (in concomitanza con il suo distacco dal teatro) decise in seguito di trasferirvisi, facendone prima la funzionale ambientazione di una successiva tetralogia di pellicole tra le quali, prima del quasi-horror L’Ora del Lupo e dei meno rilevanti La Vergogna e Passione, spicca soprattutto il celebre Persona: film tra i suoi più sperimentali e complessi, ricco dei temi a lui cari affrontati con radicale pessimismo (tra cui il concetto di maschera come simbolo dell’Io), è un dramma psicologico in cui tutto ciò emerge attraverso una chirurgica indagine del rapporto tra un’attrice e la sua paziente infermiera, interpretate da altre due tra le sue attrici predilette, ovvero Bibi Andersson e Liv Ullmann. In seguito, dopo il collettivo Stimultanea, il film televisivo Il Rito e il minore L’Adultera (che fu un insuccesso), nonostante gli Oscar gli avessero assegnato il premio alla memoria Irving G. Thalberg, Bergman dovette far fronte a serie difficoltà economiche e professionali, ma riuscì a riscattarsi su entrambi i fronti anche grazie all’inaspettato ottimo riscontro ottenuto nel 1972 con Sussurri e Grida, altro film che si inserì a pieno titolo tra i suoi più noti: memorabile riflessione sul dolore influenzata da Strindberg, l’opera ruota attorno al rapporto tra due sorelle (Ullmann e Thulin) che insieme alla governante assistono la terza malata di cancro (di nuovo Harriet Andersson), il tutto con un’altissima tenuta espressiva coadiuvata dalla preziosa e cruciale fotografia ad opera di Sven Nykvist, fidato collaboratore del regista e premiato agli Oscar, dove il film ottenne altre quattro nomination tra cui miglior film, regia e sceneggiatura.
L’anno seguente, mentre al contempo si avvicinava anche alla televisione (realizzando vari progetti per il piccolo schermo), Bergman diresse un altro caposaldo della sua filmografia, ovvero Scene da un Matrimonio (nato appunto come progetto televisivo di sei ore, poi scorciate a tre per l’edizione cinematografica), nuova indagine di un lungo rapporto di coppia in cui torna a dirigere la sua musa e allora compagna Liv Ulmmann (dalla quale nel frattempo aveva avuto un figlio). In seguito, dopo aver diretto l’affine dramma psicologico al femminile L’Immagine allo Specchio (anch’esso interpretato dalla Ullmann) e l’apprezzato film operistico Il Flauto Magico (filmando con affetto e dedizione il celebre capolavoro di Mozart), il regista dovette però affrontare un nuovo periodo di crisi: infatti, pur contando anche su una nuova stabilità nella sua intensa vita sentimentale (il rapporto con la sua quarta e ultima moglie Ingrid von Rosen si rivelò il più solido tra i suoi numerosi legami dai quali, tra precedenti matrimoni e diverse relazioni anche con le sue attrici, nacquero ben nove figli), Bergman incappò infatti in varie peripezie legali col fisco che si ripercossero sulla sua carriera e sulla sua persona (causandogli infatti una pesante depressione). In seguito, pur riuscendo progressivamente a risolvere tali problemi, il conseguente tormento interiore e il continuo assillo della burocrazia lo spinsero comunque ad allontanarsi dalla Svezia; in quel periodo realizzò i minori L’Uovo del Serpente e Un Mondo di Marionette (entrambi girati in Germania), ma anche il più celebre Sinfonia d’Autunno (di produzione anglo-norvegese), film imperniato su un conflittuale rapporto madre-figlia per il quale il regista tornò a ricevere consensi trovando inoltre l’occasione di dirigere, accanto all’immancabile Ullmann, l’omonima e conterranea diva Ingrid Bergman (che per questo ruolo ricevette la sua ultima candidatura all’Oscar).
Tornato a quel punto in patria ma ormai ritiratosi permanentemente sulla succitata isola di Faro, nel 1982 realizzerà quello che nelle sue intenzioni avrebbe dovuto essere il suo ultimo film, ovvero il bellissimo Fanny e Alexander, storia di una famiglia di Uppsala tra il 1907 e il 1909: anch’esso concepito come progetto televisivo e poi convertito in una versione per il cinema, l’ambizioso progetto si rivelò un autentico capolavoro che, animato da una sessantina di personaggi e caratterizzato da marcati toni autobiografici, appare un sentito compendio del suo cinema, divenendo come tale una sorta di memorabile testamento artistico. Pur realizzato con un budget altissimo, il film (riproposto poi anche in TV nella sua versione estesa) fu un successo internazionale e su un totale di sei candidature (tra cui miglior regia e sceneggiatura) si aggiudicò ben quattro Oscar per miglior fotografia, scenografia, costumi e miglior film straniero, categoria nella quale trionfò anche ai Golden Globe (dove Bergman ottenne così l’ultimo dei sei riconoscimenti analoghi raccolti nel corso della sua sfolgorante carriera). L’annunciato congedo non fu però definitivo: infatti, nonostante l’età avanzata, negli anni seguenti Bergman continuò comunque a lavorare sia al cinema che in televisione, realizzando film come il parapsicologico Dopo la Prova e il più teorico Il Segno, pubblicando inoltre al contempo anche diversi libri, tra cui il romanzo autobiografico Lanterna Magica e il volume di fotografie Immagini. Negli ultimi anni, pur avendo ormai abbandonato la regia cinematografica per concentrarsi su quella teatrale, rimase comunque attivo come sceneggiatore e produttore per poi tornare in due occasioni a dirigere film per la TV, prima nel 1997 con Verità e Affanni (ambientato in un ospedale psichiatrico e ricco di temi a lui cari) ed infine nel 2002 per Sarabanda (sequel di Scene da un Matrimonio, girato con tecniche digitali), che rimane il suo ultimo lavoro: Ingmar Bergman morì infatti il 30 luglio 2007 (lo stesso giorno dell’illustre collega Michelangelo Antonioni) nella sua casa di Faro, all’età di ottantanove anni.