Quando lo scafo del suo yacht viene perforato da un container alla deriva, un solitario viaggiatore (Robert Redford) dovrà attrezzarsi per sopravvivere nell’Oceano Indiano: contando sulle correnti e sperando di incontrare una nave di passaggio, l’uomo dovrà resistere in una situazione disperata e in balia degli eventi, cercando di resistere alla scarsità delle provviste, alla minaccia degli squali, al sole cocente e a violente tempeste.
Dopo il buon esordio con “Margin Call” (molto dialogato, dal ritmo concitato e ricco di personaggi), il regista e sceneggiatore J. C. Chandor conferma il suo talento con un’opera seconda agli antipodi della precedente che, con uno script di appena 31 pagine, una quasi totale assenza di dialoghi e un solo e unico interprete, ha il coraggio di un film-scommessa. Puntando sui particolari per tenere viva la suspense, con una scrittura stilistica di aspra e limpida essenzialità funzionale all’empatia e con un’abile dinamicità coadiuvata da valide componenti tecniche (il montaggio di Pete Beaudreau, la sostanziosa colonna rumori e le musiche di Alexander Ebert, premiato con il Golden Globe) rovescia la tensione da storia di sopravvivenza in una concreta eppure solenne profondità da parabola umana sull’etica dell’adoperarsi e del perseverare: calata in una dimensione geografica e antropologica pressoché ignota e assai d’impatto (fotografia di Frank G. DeMarco), la vicenda di un personaggio senza nome e senza background assurge infatti, con sfumato sentore metaforico, a più ampia rappresentazione dell’altalenante condizione dell’uomo, spesso soggiogato dagli eventi a lui estranei e costretto a contare sulle sue energie e sulle sue esperienze per trovare salvezza. In questa lotta con sé stessi contro il caso e gli elementi, al di là dei rimandi ad Hemingway può essere calzante anche un riferimento a T. S. Eliot (citato dallo stesso Redford durante la promozione del film): “Per noi, non vi è altro da fare che tentare. Il resto non è affar nostro”; in questa prospettiva, anche il finale, assai discusso per la sua volutamente insoluta ambiguità a libera interpretazione (realtà o immaginazione, speranza o fatalità, provvidenza o religione?) può in un certo qual modo rimarcare il senso intrinseco presente già dal breve e sconfortato monologo d’apertura: per il protagonista (e quindi per l’uomo in generale) nel raccogliere la sfida di affrontare le avversità, ciò che conta è la forza di provare, di resistere, di reagire. In tutto questo, il settantasettenne Redford sostiene l’intero film sulle spalle, coniugando energia fisica e sfumature psicologiche e recitando senza parole né interlocutori: peccato che l’Academy, che ha riservato al film una nomination per il missaggio sonoro, non abbia riconosciuto la dedizione e lo spessore della performance.
All is Lost - Tutto è perduto | |
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Summary
“All is Lost”; di J. C. Chandor; con Robert Redford; drammatico; USA, 2013; durata: 100’. |
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