California, 1940. Allo sceneggiatore Herman J. Mankiewicz, ormai alcolizzato e inviso ai vertici dello studio system, nonché temporaneamente infermo a causa di un incidente, viene commissionata la stesura di uno script dal giovane Orson Welles, ventiquattrenne già talento del teatro a cui la RKO ha dato carta bianca per realizzare il suo esordio nel cinema. Isolatosi quindi nel deserto del Mojave insieme a due assistenti per dedicarsi alla scrittura, “Mank” cerca ispirazione rievocando eventi e conoscenze del passato, a partire dai suoi rapporti conflittuali con il magnate dell’editoria William Randolph Hearst (amante dell’attrice Marion Davis, con la quale lo sceneggiatore instaura un rapporto di amicizia platonica) e con il produttore Louis B. Mayer (a capo di una MGM in crisi), entrambi attivamente impegnati ad osteggiare il candidato democratico Upton Sinclair, da lui invece sostenuto, alle elezioni presidenziali del 1934.
Al suo undicesimo lungometraggio, David Fincher ha finalmente potuto mettere in immagini una sceneggiatura che suo padre Jack (scomparso nel 2003) scrisse negli anni Novanta senza però mai riuscire a portarla su schermo, imperniata sulla dibattuta tesi (avanzata in primis nel 1971 dalla critica Pauline Kael e in seguito screditata) che attribuiva la paternità dello script del capolavoro Quarto Potere unicamente a Mankiewicz (e non, come invece risulta nei crediti, anche al regista Welles). Ritenuto pertanto in precedenza anche rischioso, l’ambizioso progetto vede la luce soltanto ora grazie al colosso Netflix che distribuisce e produce (con l’appoggio di Eric Roth, impegnato anche in una più recente revisione del copione), concretizzandosi quindi con ventennale ritardo rispetto al concepimento eppure al tempo stesso con fortuita puntualità in relazione all’odierno contesto storico-sociale, che si dimostra infatti particolarmente opportuno e congeniale. Perché quest’opera magmatica e polifonica (fuori dai canoni del classico biopic, del dramma storico o del racconto di costume) assume anche una chiave di lettura decisamente attuale attraverso quella sorta di processo meta-cinematografico su cui si fonda non solo la quasi paradossale strategia produttiva (un film sulla settima arte in evoluzione rifiutato dalle major e quindi realizzato con il contributo di una piattaforma streaming in un periodo di chiusura delle sale), ma anche lo stratificato apparato contenutistico: infatti, intrecciando una caustica disamina dell’industria hollywoodiana (scardinandone così dall’interno meccanismi e idiosincrasie) ad una marcata componente socio-politica (l’influenza dei media sulle elezioni che richiama le tattiche di Trump e gli effetti delle fake news), Fincher declina nell’ambiente cinematografico le tematiche a lui care della manipolazione della realtà e del potere dei mezzi di aggregazione che in tempi di incertezza condizionano l’individuo in perenne conflitto con le proprie ambizioni ma anche con un contesto di compromessi ed apparenze; emblematico a tal proposito è il personaggio centrale (incarnato con coerentemente vulcanica partecipazione da un notevole Gary Oldman), antieroe scomodo e donchisciottesco (proprio come il Kane di Quarto Potere) il quale cerca di imporre il suo impeto artistico in un mondo spietato e indolente (dominato dagli ipocriti magnati a capo degli studios) in cui a salvarsi è forse soltanto la sua “Dulcinea”, ovvero l’affascinante e più accondiscendente Marion Davies (una magnetica Amanda Seyfried che, al suo ruolo migliore, ruba ogni scena in cui compare). In ciò, se da una parte il tutto rischia forse di apparire a tratti programmatico sul piano ideologico (nel rimarcare tali contrasti per sostenere con convinzione la “versione” di Mankiewicz) e non sempre compatto su quello strutturale (nell’alternanza di piani temporali costellata di pur gustosi rimandi e citazioni), dall’altra tale densa rete di richiami e digressioni si rivela tuttavia in linea con la natura conflittuale dell’opera, riflessa appunto anche da quel tono in costante e difficile equilibrio tra sentito omaggio e disincantata rievocazione che veicola uno sguardo sul cinema sospeso tra passato e presente, luci e ombre, oblio e salvezza. A tale risultato, oltre a un funzionale cast di supporto (tra cui spiccano soprattutto Arliss Howard nei panni di Louis B. Mayer, Charles Dance in quelli di William Randolph Hearst e Tom Burke come Orson Welles) contribuiscono inoltre contributi tecnici di prim’ordine, dalla ricca e minuziosa ricostruzione scenografica di Donald Graham Burt all’evocativo bianconero della fotografia di Erik Messerschmidt (in digitale ma rielaborata in post-produzione per simulare le vecchie pellicole) fino alla colonna sonora dei fidati Trent Reznor e Atticus Ross (ispirata alle musiche di Bernard Herrmann).
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Summary
id.; di David Fincher; con Gary Oldman, Amanda Seyfried, Arliss Howard, Lily Collins, Tom Pelphrey, Tuppence Middleton, Tom Burke, Sam Troughton, Ferdinand Kingsley, Joseph Cross, Charles Dance, Toby Leonard Moore, Jamie McShane, Monika Gossmann; B/N; USA, 2020; durata: 131’. |
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