Parasite

Parasite

- in Film 2019, Recensioni
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La famiglia di Ki-taek è molto unita e affiatata ma anche in grave difficoltà: l’uomo vive infatti insieme alla moglie e ai due figli in uno squallido seminterrato, prodigandosi con il loro supporto in umili lavoretti che non possono garantire alcuna sicurezza futura. La speranza di un’entrata regolare si manifesta quando il primogenito, Ki-woo, viene raccomandato da un amico universitario per un lavoro ben pagato come tutor privato della figlia maggiore della famiglia del signor Park, ricco proprietario di una multinazionale informatica che conduce un’esistenza facoltosa insieme alla moglie e agli eredi. Così, quando Ki-woo riesce con uno stratagemma a superare il colloquio e farsi assumere, l’intera sua famiglia decide di sfruttare l’occasione come punto di partenza per architettare un piano diabolico con l’obiettivo di sistemarsi definitivamente. Ma anche una strategia apparentemente vincente può in realtà portare a conseguenze inaspettate.

Chi è davvero il “parassita” a cui si riferisce con confacente ambiguità beffarda il titolo di questo settimo, straordinario film del sudcoreano regista Bong Joon-ho (tornato in patria e ai fast originari dopo la trasferta statunitense e due film in lingua inglese), da lui stesso argutamente definito “una commedia senza pagliacci e una tragedia senza cattivi”? Sebbene la trama non preveda elementi prettamente fantascientifici, risulta nondimeno calzante tale epiteto da ultracorpi che potrebbe in effetti indicare chiunque tra i malfidi personaggi al centro di un’opera di conforme natura vampirica nella quale l’autore ridispone in verticale le implicazioni sociali del post-catastrofico Snowpiercer per trasferirle in un contesto realistico eppure a suo modo degno di una distopia per ricca contaminazione di toni e densa carica allusiva: un contesto di scompensi e instabilità che il regista, interiorizzando le manifestazioni mostruose di The Host e Okja intrecciandole con le tensioni politiche di Memories of Murder e le idiosincrasie familiari di Madre, illustra e trasfigura attraverso gli imprevedibili sviluppi (tra sorprendenti colpi di scena e continui ribaltamenti di situazione) degli incrociati piani machiavellici tessuti da una sorta di “gruppo di famiglie in due interni su più livelli” che si compone, sovrappone ed implode nel corso di uno svolgimento a sua volta appunto insinuante e proteiforme. Infatti, attraverso una funambolica e miracolosamente equilibrata variazione di toni che rispecchia la mutevole natura del racconto e conferma l’abilità dell’autore di cavalcare i generi mescolandone gli elementi senza scadere in facili manierismi, il film inizia come un’enigmatica black comedy al vetriolo per poi evolversi in un avvincente thriller psicologico da camera che, snodato con infallibile suspense hitchcockiana e pronto a sconfinare in un violento grand-guignol dalle venature splatter, sfocia infine nel dramma tragico in cadenze di mélo raffreddato; il risultato è una sorta di kammerspiel schizoide e stratificato nel piglio come anche nei contenuti che, pervaso da pulsioni alla Lanthimos e contrappuntato da antifrasi musicali alla Kubrick (spaziando da Handel fino al pop italiano, con Gianni Morandi a commentare una scena di lotta selvaggia), per analogie di intenti può far pensare ad un curioso e audace incontro-scontro tra Teorema di Pasolini e Il Servo di Losey messo in scena con un approccio in altalena tra la spiazzante lucidità di Haneke e le satire borghesi sardoniche e surreali di Chabrol e Bunuel; perché da un continuo e diabolico match di inganni incrociati, sostituzioni e scambi di ruoli emergono gli inquietanti meccanismi di una società malata e disumana che l’autore, esasperando il tutto calandolo in una scatenata atmosfera “di ordinaria follia” intrisa di amarissimo umorismo, mette alla berlina in quella che diventa quindi un’allegorica (e misantropica) parabola sociale in chiave grottesca spinta ai limiti del parossismo, orchestrata secondo una costruzione a scatole cinesi che fa il paio con la labirintica ambientazione: infatti, elevata a vero e proprio personaggio anche grazie ad un avvolgente apparato scenografico esaltato da strategiche soluzioni di fotografia, la grande casa che fa da teatro alla vicenda assume i tratti di palpitante microcosmo di inquietudini e rancori pronto ad esplodere la cui topografia (congegnata su piani diversi, doppi fondi e passaggi nascosti che da ampi spazi conducono ad anfratti angusti) riflette quello del fagocitante sistema capitalista contemporaneo. Così (come suggerisce anche il giovane co-protagonista fingendo di meravigliarsi di fronte ad inattese e curiose “metafore”), tale gioco al massacro fondato sul doppio e sulla sostituzione assurge a rilevante sineddoche dell’attuale realtà spietata e classista di cui il film offre una feroce denuncia che, evitando di indulgere in artificiosi o retorici schematismi, non resta inoltre circoscritta al contesto coreano (favorito e al tempo stesso gravato dal suo status di “nazione a metà” culturalmente a cavallo tra oriente ed occidente), estendendosi bensì su un piano universale; perché dalla fitta rete di allusioni e rimandi che intreccia forti contrasti (ad una stretta finestra da cui si osserva un ubriaco che urina si contrappone una grande vetrata che apre su un giardino rigoglioso) a incolmabili divari (il ritorno dai quartieri alti ai bassifondi raccontato come un’opprimente “discesa agli inferi” priva di quel limbo che corrisponde alla media borghesia) scaturisce una lotta per la sopravvivenza che in realtà ci riguarda tutti, nella quale perfino la forza di qualsiasi tradizione e l’importanza delle proprie origini paiono divenire effimere; infatti, se l’escalation di prevaricazioni raggiunge l’apice con un costume da nativo d’America (alludendo ad una colonizzazione occidentale così egemonica da estendersi addirittura all’immaginario), anche la fiducia nel presunto potere folcloristico di una pietra portafortuna svanisce insieme a quel sogno giovanile che la stessa rappresenta, soffocato dall’egoismo materialista di un mondo squilibrato in cui nessuno si salva o viene risparmiato giacché a prevalere è appunto un individualismo così estremo da erodere perfino i legami più stretti. Non a caso, in una totale radicalizzazione del pessimismo tipico dell’autore (sospendendo la lirica catarsi e rifiutando qualsiasi rassicurazione consolatoria), il film termina con una visione di speranza che però, proprio come un rifugio allagato da una pioggia ingovernabile o un piano solo apparentemente perfetto che invece sfugge di mano e si rivela fallimentare, finisce ineluttabilmente per confondersi e svanire nell’ingovernabile caos di una realtà ormai totalmente disillusa, rischiando quindi di rivelarsi forse soltanto una chimera; così, in questa inesorabile guerra tra poveri che, causata anche da una generale inadeguatezza nel convivere e condividere intenti e ambizioni comuni, annulla qualsiasi etica (portando a perdere di vista principi e identità) e non lascia eroi né vincitori (i miserabili si scoprono avidi, imbroglioni e approfittatori come i ricchi che restano invece zucconi, fiacchi ed incapaci), alla fine ciò che resta è soltanto l’amara parvenza di un auspicio per un futuro migliore forse destinato appunto a rimanere tale. Anche a tal proposito, volendo trovare affinità elettive più prossime ad una visione del nostro tempo così lucidamente disincantata, attuale e universale, il film potrebbe altresì inserirsi tra il precedente Un Affare di Famiglia del giapponese Kore’eda e il coevo statunitense Noi di Jordan Peele: perché, tra problematici nuclei comunitari e disuguaglianze sociali portate alle estreme conseguenze, in realtà siamo proprio tutti noi i parassiti inquadrati in quest’opera personalissima e composita che, sfuggendo come tale a qualsiasi canonica classificazione, si distingue per armonioso e personalissimo connubio tra incisiva foga dei messaggi e acrobatico virtuosismo nell’esposizione. In effetti, raramente la lotta di classe era stata raccontata su schermo con tale caratteristica tenuta stilistica, esemplare forza corrosiva, disincantato determinismo ed efficacia spettacolare. Non a caso, sostenuto anche da un cast davvero strepitoso per viscerale adesione e modulazione espressiva, questo capolavoro al contempo divertente e desolante, sorprendente e spiazzante, pregnante e trascinante è riuscito da subito a conquistare non solo critici e cinefili (fin dall’anteprima al festival di Cannes, dove si aggiudicò la Palma d’Oro), ma anche il pubblico internazionale e infine l’industria hollywoodiana: un inaspettato quanto meritato successo coronato appunto dallo storico trionfo agli Oscar, dove infatti, oltre al premio come miglior film internazionale, ottenne anche le statuette per miglior regia, sceneggiatura originale e miglior film (divenendo così il primo lungometraggio non anglofono ad aggiudicarsi il premio più importante).

Parasite
Parasite
Summary
“Gisaengchung”; di Bong Joon-ho; con Song Kang-ho, Lee Sun-kyun, Cho Yeo-jeong, Choi Woo-Sik, Park So-dam, Chang Hyae-jin, Lee Jung-eun, Park Myeong-hoon, Park Seo-joon, Jung Ziso, Jung Hyeon-jun; Corea del Sud, 2019; durata: 132’.
100 %
Voto al film
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2 Comments

  1. ottimo articolo che consiglio a tutti

  2. e trascinante è riuscito

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