Sveglio e vivace bambino di cinque anni, il piccolo Jack (Jacob Tremblay) viene accudito dalla sua amorevole e devota madre Joy (Brie Larson), la quale fa di tutto affinché il bimbo sia felice ed al sicuro, ricoprendolo d’amore e calore e passando il tempo a giocare e raccontare storie. La loro vita però, è tutt’altro che normale: i due sono infatti intrappolati in un angusto spazio senza finestre che la giovane donna chiama “Stanza”. All’interno di questo ambiente, la madre ha creato un intero universo per Jack, e si impegna per garantire al figlioletto una vita normale ed appagante anche in un luogo così infido. Ma di fronte ai crescenti interrogativi di Jack circa la loro situazione, i due decidono di mettere in atto un piano di fuga molto rischioso, che potrebbe metterli però di fronte ad una realtà ancora più spaventosa: il mondo reale.
Non è certo una sorpresa che questo piccolo-grande film indipendente, accolto con grande successo fin dal suo esordio al festival di Toronto (dove si è infatti aggiudicato il premio del pubblico), abbia saputo convincere ed emozionare numerosi critici e spettatori, continuando nel frattempo a mietere consensi e raccogliere riconoscimenti, riuscendo finanche ad imporsi tra le grandi produzioni all’ultima edizione dei premi Oscar (dove concorreva con 4 candidature, tra cui miglior film e regia). Tratto dal romanzo Stanza, letto, armadio, specchio di Emma Donoghue (ispirato ad un fatto di cronaca e adattato per lo schermo dalla stessa autrice), il sesto film di Lenny Abrahamson (già autore, tra gli altri, del bizzarro Frank con Michael Fassbender) ha infatti uno dei principali punti di forza nell’azzeccata scelta di rendere lo spettatore partecipe della difficile ed angosciosa vicenda adottando il punto di vista del piccolo Jack, vispo e sensibile nonostante la sua visione distorta della realtà: “Quando avevo quattro anni non sapevo che esisteva il mondo”, afferma il bimbo poco dopo aver scoperto quell’intero universo che fino a poco prima non credeva potesse esistere. Diretto dall’irlandese regista con finezza e mestiere, Room è un prezioso dramma dell’anima con venature da thriller strutturato in due parti distinte, con una netta scissione corrispondente al centrale ribaltamento della percezione che avviene alla presa di coscienza di essere dalla parte sbagliata di un muro che non contiene la realtà ma al contrario la esclude (con il mondo conosciuto che si rivela una proiezione di quello immaginato e viceversa): la prima, quasi una sorta di esteso prologo totalmente ambientato nell’angusto microcosmo all’inizio noto soltanto come “Stanza”, risulta da subito indubbiamente notevole per il dinamico virtuosismo con cui Abrahamson si muove in tale ambiente circoscritto per catturare sguardi e cesellare dettagli, riuscendo con sensibile mestiere a cogliere le contrastanti sensazioni scaturite da una condizione di esclusione dal mondo che nel suo labile equilibrio resta infatti sospesa tra desolante prigionia e confortante rifugio; la seconda, anch’essa ambientata principalmente in interni nonostante il cambiamento di situazione (come a voler tradurre su schermo la difficoltà nel lasciarsi alle spalle un senso di costrizione che è infatti anche mentale), si concentra invece sulle inevitabili quanto impreviste conseguenze del trauma (se il bimbo pare riuscire ad affrontare una sorta di tardivo shock della nascita, la madre invece fatica a relazionarsi con quella nuova libertà che può sembrare solo apparente): in quest’ultima parte, l’avvolgente e viscerale estro stilistico della prima metà si stempera quindi in un resoconto sugli effetti del calvario dei due reduci in un mondo di grandi ostilità da contrastare con gli affetti (da una parte l’insensibilità dei media e la riluttanza del nonno, dall’altra la dolcezza della nonna e del suo nuovo compagno), il tutto condotto con un approccio sempre intenso e coinvolgente anche se più convenzionale, specie a livello di indagine psicologica; ciò è comunque in buona parte riscattato dalla delicatezza del tocco e dalla sensibile abilità con cui il regista (smorzando i toni alti a favore di una sussurrata e più vibrante intimità) conduce ed illustra il calibrato sviluppo degli eventi, che trova il suo apice nella memorabile sequenza del furgone, in cui una rocambolesca fuga degna di un grande film di suspense coincide con l’emozionante scoperta del mondo dall’interno di un tappeto arrotolato. Tutto ciò, coadiuvato dalla cruciale quanto sentita adesione dei due interpreti principali (ben supportati da due comprimari d’eccezione come William H. Macy e Joan Allen), ovvero la giovane Brie Larson (premiata meritatamente con l’Oscar e con il Golden Globe come migliore attrice protagonista) e il piccolo quanto sorprendente Jacob Tremblay, che alla tenera età di appena 9 anni riesce ad offrire una performance di straordinaria efficacia per commovente empatia e travolgente intensità.
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Summary
id.; di Lenny Abrahamson; con Brie Larson, Jacob Tremblay, Joan Allen, William H. Macy, Tom McCamus, Sean Bridges, Wendy Crewson, Amanda Brugel; drammatico; Irlanda/ Canada/ G. B., 2015; durata: 117'. |
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