Nel 1976, la rivalità tra i piloti di F1 James Hunt (Chris Hemsworth) e Niki Lauda (Daniel Brühl) raggiunge il culmine: il primo, estroverso e carismatico, tenterà di strappare al secondo, riservato e scrupoloso, il titolo di campione del mondo. Durante il Gran Premio di Germania, Lauda rischia di perdere la vita in un grave incidente, ma neanche questo eclatante e drammatico avvenimento porrà fine all’agguerrita sfida.
Dopo l’ottimo “Frost/Nixon” (2008), lo sceneggiatore e drammaturgo britannico Peter Morgan offre al regista Ron Howard un’altra storia imperniata su un confronto, questa volta nel contesto roboante della Formula 1 degli Anni Settanta (epoca d’oro del circo delle corse, rievocata con abilità e passione): da una parte l’inglese J. Hunt (interpretato dall’australiano C. Hemsworth), che, indifferente e spericolato, si pavoneggia tra champagne e belle donne; dall’altra, l’accigliato austriaco Lauda (il tedesco D. Brühl, davvero sorprendente in una recitazione che va oltre la minuziosa adesione mimetica), che invece disapprova tale atteggiamento e preferisce agire con prudenza e coscienziosità, pronto ad affrontare anche le più dure conseguenze che potrebbero portare determinate scelte, tanto responsabili quanto impopolari. Nonostante ciò, sarà quest’ultimo a pagare un prezzo terribile, ma in seguito vedremo che uno tra i punti più alti della storia non coincide con una vittoria, ma bensì con un ritiro: chi è dunque il vero vincente? Il film non offre una risposta, eppure nella sua alternanza tra punti di vista stimola a schierarsi e a tifare, portando ad un coinvolgimento che può diventare identificazione in entrambi, archetipi colmi di verità che si incastrano l’uno nell’altro, confondendosi e portando ad una riflessione sugli effetti dell’ego, sull’importanza delle scelte, e sul peso dell’etica: l’agognata gloria della vittoria e la brama di essere amati, oppure la quieta gratificazione professionale, con la sicurezza di essere apprezzati. Così, ancora una volta lo sport diventa metafora per esprimere il dualismo di aspirazioni inconciliabili, divise tra coscienza e morale, con la consapevolezza del rischio come determinante fattore comune, specie se la sfida è anche con sé stessi. In tutto questo, con il supporto di ottimi contributi tecnici (fotografia di Anthony Dod Mantle, montaggio di M. Hill e D. P. Hanley, musiche di Hans Zimmer), la regia di Howard, classica ma efficace, fonde repertorio e ricostruzione con sicuro mestiere ed efficiente abilità: tra sequenze in camera-car, simulazioni dall’interno, incidenti infuocati e flashback d’approfondimento, anche le parentesi di alta retorica e il largo ricorso all’uso di effetti digitali non risultano elementi invasivi, perché influenti nel pathos del racconto (concorrendo al processo di mitizzazione dei protagonisti) e funzionali al mood “Seventies” della vicenda. Forte di un approccio e una materia che, tra l’altro, garantiranno certo un felice successo al botteghino, “Rush” combina così una narrazione densa ma scorrevole con lo spirito libertario e quasi epico della New Hollywood degli anni ’70 e ’80, offrendo uno spettacolo ricco e appassionante.
Rush | |
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Summary
id.; di Ron Howard; con Chris Hemsworth, Daniel Brühl, Olivia Wilde, Alexandra Maria Lara, Pierfrancesco Favino, Natalie Dormer, Tom Wlaschiha, Christian McKay, Jamie Sives; drammatico; USA, 2013; durata: 123'. |
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