1971. Prima donna alla guida del The Washington Post, Katharine Graham (Meryl Streep), ritrovatasi in tale posizione quasi per caso in seguito alla morte del marito, cerca di far fronte alle difficoltà finanziarie che la costringono a quotare in borsa l’azienda di famiglia impegnandosi al tempo stesso per imporsi in un ambiente prevalentemente maschile che in realtà poco la considera, come dimostrano anche le decisioni dello scostante direttore Ben Bradlee (Tom Hanks); nel frattempo però quest’ultimo, insospettito da alcuni comportamenti inusuali del reporter di punta del New York Times, fiuta uno scoop e decide di indagare, scoprendo in effetti che il disilluso analista militare Daniel Ellsberg (Matthew Rhys) ha fornito al giornale concorrente parte di una copia di un rapporto segreto che nello svelare l’implicazione militare degli Stati Uniti nella guerra del Vietnam sconfesserebbe quanto raccontato al popolo da ben quattro amministrazioni presidenziali. In pochi giorni parte dei cosiddetti “Pentagon Papers” vengono quindi pubblicati sulle pagine del New York Times, ma da subito il presidente Nixon tenta di ostacolare il lavoro dei giornalisti, tanto che ben presto la redazione riceve l’ingiunzione di sospendere la pubblicazione. Quando però anche il Post ottiene il dossier da Ellsberg grazie al lavoro del reporter Ben Bagdikian (Bob Odenkirk), Bradlee e Katharine dovranno decidere se tirarsi indietro davanti alla prepotenza del potere oppure rendere pubblici i documenti rischiando carriera e reputazione in nome della trasparenza e della libertà d’espressione.
“È la stampa, bellezza. E tu non ci puoi fare niente”: tale celeberrima battuta pronunciata da Humphrey Bogart ne L’Ultima Minaccia pare aleggiare come un mantra per tutta la durata del trentunesimo film di Steven Spielberg, il quale, dopo una nuova e non esaltante incursione nel fantasy con Il GGG, continua ora il suo itinerario di rievocazione della Storia americana (ultimamente portato avanti con i precedenti Lincoln e Il Ponte delle Spie) realizzando questo poderoso dramma in ambiente giornalistico candidato a 2 premi Oscar tra cui miglior film. Ben inserito nella tradizione del cinema americano nonché in linea con la filmografia del regista nel suo approccio classico di limpida solidità narrativa, The Post è in effetti un film tipicamente spielberghiano anche per come espone la sua lezione democratica senza salire in cattedra nonostante qualche anfratto della sua immancabile retorica (specie nel pur emozionante finale) che però, benché forse inevitabile nel trattare tale materia in ambito hollywoodiano, resta comunque piuttosto misurata non guastando il sincero coinvolgimento sostenuto dall’usuale padronanza della messa in scena, coadiuvata dai validi contributi di storici collaboratori tecnici (dalla fotografia di Janusz Kaminski alle musiche di John Williams): su una valida sceneggiatura scritta da Liz Hannah con Josh Singer (già premio Oscar per un altro film di simile ambientazione come Il Caso Spotlight), Spielberg orchestra infatti le dinamiche della vicenda con una sottile tensione da thriller politico (dai fluidi piani-sequenza con i quali si muove nella redazione alla concitata ricerca del dossier, fino al montaggio serrato del lavoro di squadra sulle migliaia di pagine che lo compongono), il tutto esaltando in ciò la responsabilità della divulgazione giornalistica e l’importanza della libertà di stampa che, come enunciato nell’esaltante chiusura “dev’essere al servizio dei governati, non dei governanti”. Così, in quello che è anche un sentito omaggio al mezzo di diffusione cartaceo (vedere le inquadrature delle rotative dal taglio quasi epico), nel celebrare il diritto all’informazione il film ne tesse un elogio sapiente e trascinante che, in un’epoca in cui l’imparzialità dei media si trova costantemente attaccata e screditata dal nuovo presidente Trump (le cui analogie con il pur quasi caricaturale Nixon risultano peraltro tutt’altro che casuali), acquista appunto un’ulteriore rilevanza di grande attualità non solo sul piano socio-politico, ma anche in relazione ai nuovi movimenti di emancipazione femminile nati in risposta allo scandalo Weinstein; perché nel concentrarsi su una battaglia che (in contrapposizione con quella mostrata dal prologo, con l’esercito americano impegnato nella guerra del Vietnam) si sviluppa negli ambienti della capitale statunitense a colpi di carta e parole, questa sorta di “war movie da camera” appassionante quanto necessario ne racconta parallelamente anche un’altra, ovvero quella di una donna come “Kay” Graham, la quale (vero cuore pulsante del film) deve appunto lottare con tenacia proprio anche per imporsi in un mondo di uomini: ad incarnarla, con una sottile precisione unita all’usuale e finissima aderenza interpretativa è una sempre eccellente Meryl Streep candidata all’Oscar, la quale, probabilmente animata anche da sentita partecipazione (da nota paladina dei diritti delle donne a Hollywood), ne delinea magistralmente la pacata, attenta, talvolta titubante eppure sempre fiera ed elegante risolutezza nell’esporsi al rischio con coraggio e determinazione; nel supportarla con notevole efficacia, al suo fianco non sfigura comunque un ottimo e funzionale Tom Hanks (ormai al suo quinto film con Spielberg), capace infatti di infondere la giusta dose di carica e senso etico al personaggio del direttore Bradlee già interpretato da un Jason Robards da Oscar nel classico sul Watergate Tutti gli Uomini del Presidente, al cui incipit non a caso l’ultima inquadratura di The Post pare peraltro riallacciarsi quasi come un ideale prequel.
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Summary
id.; di Steven Spielberg; con Meryl Streep, Tom Hanks, Bob Odenkirk, Sarah Paulson, Tracy Letts, Matthew Rhys, Bruce Greenwood, Bradley Whitford, Alison Brie, Carrie Coon, Michael Stuhlbarg, Jesse Plemons, David Cross; USA, 2017; durata: 115’. |
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