È la storia vera di Tonya Harding (Margot Robbie), controversa campionessa di pattinaggio dal vulcanico temperamento nonché protagonista di uno dei più grandi scandali sportivi nella storia statunitense: cresciuta all’ombra di una madre opprimente (Allison Janney) e sposatasi giovanissima con un marito violento (Sebastian Stan), nel 1991 diventa la prima atleta americana a qualificarsi ai campionati nazionali per la notevole esecuzione di un triplo axel, ma la sua ascesa subisce ben presto una battuta di arresto quando infatti, solo un anno più tardi, finisce sulle pagine di cronaca perché indicata tra i responsabili della grave aggressione, avvenuta in circostanze poco chiare, della rivale Nancy Kerrigan (Caitlin Carver).
Per inquadrare la controversa figura della Harding, il film di Craig Gillespie (fattosi notare nel 2007 con l’esordio Lars e una Ragazza Tutta Sua) ne rievoca l’ascesa (dall’infanzia in un ambiente indigente ai trionfi come atleta olimpica) snodando però al contempo la narrazione attorno a quello scandalo in cui si trovò coinvolta e che con grande scalpore mediatico ne determinò la caduta, il tutto con un piglio da atipico biopic sui generis: in un’alternanza di registri che, fondendo coinvolgente fiction e resoconto intenzionalmente artificioso, alterna momenti di spettacolo e finte interviste ai personaggi con rotture della quarta parte e ricorsi alla voce over, è strutturato come un finto documentario in toni di nerissima commedia satirica attraversata da venature da gangster movie che procede con un ritmo energico e serrato scandito dall’ottimo montaggio di Tatiana S. Rigel (candidata all’Oscar) e da una trascinante soundtrack composta da successi rock Anni ’80 e ’90. Così, assecondando la solida sceneggiatura di Steven Rogers, il regista australiano pare guardare al cinema dei fratelli Coen per mettere in scena il succitato fatto di cronaca come una sorta di truffa ad opera di inetti balordi facendone appunto il culmine di un racconto che, assimilando in ciò anche la lezione di Scorsese, assume progressivamente i connotati di sardonica parabola dark a tinte forti su un’ambigua anti-eroina divenuta esemplare prodotto avvelenato di una società che crea miti e poi li distrugge. Sovvertendo in tal modo i canoni del cinema sportivo come metafora del Sogno Americano, nel calare il tutto nel contesto dei cosiddetti “redneck” dell’America più profonda, il film lo dipinge come una vivida sineddoche di una società statunitense che infatti “vuole qualcuno da amare ma anche qualcuno da odiare”, suggerendone vizi, fragilità e contrasti con un estro irriverente e senza filtri che, rispecchiandone l’indole ambigua e beffarda, rifiuta facili moralismi o attenuanti giudizi; a questo proposito, sebbene tale approccio, giacché applicato ad una storia vera, possa apparire discutibile per come, nel favorire l’empatia verso una figura così controversa, tende a riscattarla indagandone il punto di vista senza però dare credito alla versione opposta, dall’altra va detto che l’intento non è ristabilire la verità, bensì esporre le contraddizioni di un sistema sociale che chiede idoli e ostenta opportunità ma genera mostri e celebra orrori, fagocitando chi è incapace di sottrarsi. Non privo in ciò di riferimenti alla lotta di classe e a quel rifiuto delle responsabilità che come in Tonya si riconosce appunto in ugual modo nella società USA (sbandierando occasioni ma reagendo invece con l’esclusione), questo apologo feroce e politicamente scorretto ma in fondo amarissimo e quasi disperato si conclude non a caso con un emblematico incontro di boxe su un ring insanguinato che al contempo può rappresentare un invito a non arrendersi oppure una deriva senza speranza. A tale risultato contribuisce anche il nutrito gruppo di interpreti tra cui, oltre a una grande Allison Janney premiata con l’Oscar per la poderosa performance di misurato istrionismo con cui ben delinea la pungente e violenta madre di Tonya, nei panni di quest’ultima spicca naturalmente la protagonista Margot Robbie (qui anche impegnata nel ruolo di co-produttrice): lanciata proprio da Scorsese con The Wolf of Wall Street e già in grado di distinguersi finanche in progetti poco riusciti come Suicide Squad, nell’incarnare con coraggio e grinta la figura della problematica campionessa in tutte le sue complesse sfumature (vedere la scena in cui, di fronte allo specchio, sul suo viso appesantito dal trucco si alternano determinazione e sconforto) la giovane attrice australiana si conferma interprete intensa e versatile assolutamente da tenere d’occhio.
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Summary
"I, Tonya"; di Craig Gillespie; con Margot Robbie, Allison Janney, Sebastian Stan, Julianne Nicholson, Bobby Cannavale, Paul Walter Hauser, Caitlin Carver; USA, 2017; durata: 119'. |
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Voto al film
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