I coniugi settantenni Shūkichi (Chishū Ryū) e Tomi (Chiyeko Higashiyama) partono dalla cittadina costiera di Onomichi per recarsi nella lontana Tokyo con l’intenzione di far visita a due dei loro cinque figli, ovvero il pediatra Kōichi (So Yamamura) e la parrucchiera Shige (Haruko Sugimura), entrambi da tempo sposati e indipendenti. Questi ultimi, però, molto impegnati dal lavoro e dalla famiglia, sembrano non riuscire a dedicare tempo ai genitori, dimostrandosi al contrario assai insensibili e decisamente poco premurosi. Soltanto la nuora Noriko (Setsuko Hara), vedova del loro secondogenito morto in guerra otto anni prima, si dimostrerà davvero disponibile e amorevole nei confronti dei due anziani.
Vagamente ispirato al soggetto di Cupo Tramonto (film statunitense del 1937 diretto da Leo McCarey), l’opera più celebrata e conosciuta (anche in occidente) di Yasujirō Ozu è inoltre (insieme al precedente Tarda Primavera) il più alto risultato del suo itinerario, un assoluto e imperdibile capolavoro in cui confluiscono mirabilmente le sue principali ricerche tematiche e stilistiche del grande autore nipponico; da lui anche co-sceneggiato insieme all’assiduo collaboratore Kōgo Noda, vi si combinano infatti il radicale e incomunicabile divario tra generazioni sul piano dei valori e delle priorità, il relativo e incolmabile distacco tra genitori e figli e la conseguente disfunzione dei nuclei familiari, il tutto connesso alla vacillante stabilità dei rapporti nel contesto sociale dell’ancora ferito Giappone postbellico che, inaridito da una sempre più estesa e paradossalmente dispersiva urbanizzazione influenzata dagli invasivi modelli occidentali, sta progressivamente smarrendo la purezza della propria tradizione antropocentrica; una realtà decisamente amara che tuttavia Ozu mette in immagini senza acredine o giudizi retorici, integrandola piuttosto con genuina autenticità in una sentita e intensa rappresentazione di quell’alternanza tra beatitudine e malinconia che, veicolata dalla succitata dialettica tra passato e presente, cadenza l’incostante quanto naturale fluire dell’esistenza (mutevole proprio come gli affetti), rispecchiato anche dal generale tono contemplativo dell’opera: infatti, adottando la sua caratteristica prospettiva “ad altezza tatami”, ovvero ponendo la cinepresa in posizione bassa e statica, come accolta negli spazi raccolti per cogliere l’evolversi del tempo e dei sentimenti (rimarcato dal continuo ricorso ad ellissi temporali e immagini di transizione), l’autore evoca profonde suggestioni con un linguaggio di lirica semplicità che, tra delicato pudore e dolente lucidità, eleva l’esile trama da dramma intimista ad emozionante e universale elegia delle più piccole quanto significative tracce quotidiane di umanità (incarnate dal personaggio della nuora vedova). Sostenuto dall’efficace gruppo di interpreti (tra cui spicca Chishū Ryū, attore feticcio del regista) e portato a termine dopo 103 giorni di riprese e 43 bottiglie di sakè (come scrisse lo stesso Ozu nel suo diario), 32 anni più tardi fu omaggiato da Wim Wenders nel suo documentario Tokyo-Ga.
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Summary
“Tokyo Monogatari”; di YASUJIRO OZU; con CHISHU RYU, CHIYEKO HIGASHIYAMA, SETSUKO HARA, HARUKO SUGIMURA, SO YAMAMURA; drammatico; Giappone, 1953; B/N; durata: 136’; |
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